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Certamente non sorprende, ai nostri occhi, la rappresentazione offertaci dai partiti politici in merito al referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno. Mentre l’area del progressismo borghese, intenta a coltivare il proprio orticello “frontista” in nome della salvaguardia della salute della democrazia, chiama al voto i lavoratori e i “cittadini” italiani, le destre sono impegnate a cavillare sul dettato costituzionale, allo scopo di giustificare la promozione dell’astensione.
Dicono che il referendum sia divisivo. Ci viene presentato come la rappresentazione plastica di due modelli alternativi di democrazia: uno che porrebbe al centro la dignità della persona e il diritto a un lavoro stabile e decente; l’altro, invece, che vorrebbe mantenere lo status quo, spiccatamente liberista e favorevole alle aziende, ai padroni. Questa è, in sintesi, la vulgata sottoscritta anche dai sindacati confederali che hanno appoggiato l’attività referendaria.
Sono vent’anni che Mauro non è più con noi; eppure mai come oggi si avverte il vuoto che ha lasciato. Da allora, la crisi del modo di produzione capitalistico si è ulteriormente aggravata e nell’aria aleggia, come non mai, lo spettro di una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità. L'alternativa storicamente posta in termini di "o socialismo o barbarie" assume grande significato anche nella sua proposizione astratta "o noi, l'intera umanità, o lui, il capitalismo". Da qui l’urgenza di affilare le armi della critica marxista nella prospettiva della rivoluzione comunista. E Mauro, che della causa della liberazione del proletariato dalla schiavitù del lavoro salariato aveva fatto la sua stessa ragion d’essere, in questa lotta, con la passione e la generosità che lo distingueva, sarebbe stato sicuramente in prima fila. Insomma: Mauro ci manca, eccome se ci manca!
2 maggio 2025
È prerogativa delle società classiste una specifica dialettica che vede la classe dominante unita e compatta nell’esercitare la più infaticabile oppressione nei confronti della classe dominata e, allo stesso tempo, l’essere dilaniata dalla più feroce battaglia intestina. Non rappresenta una novità del modo di produzione capitalistico, nonostante la fase imperialista espanda la lotta intestina a tutto il pianeta, la circostanza per la quale, all’interno dei molteplici covi di briganti, anche le alleanze che appaiono più solide possano venir meno al cospetto di modificazioni nell’orizzonte degli affari e degli interessi del Capitale o dei singoli capitalisti.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, parte dell’Europa ha vissuto sotto il cosiddetto ombrello della NATO; oggi, però, le cose sembrano nuovamente cambiare. In continuità con le prospettive di dominio originatesi da Yalta, anche con l’ultimo capitolo della guerra permanente - la guerra in Ucraina - gli Stati Uniti hanno potuto mettere bastoni tra le ruote negli affari interni del vecchio continente e soprattutto nella solida relazione tra Berlino e Mosca. Nondimeno Washington minaccia seriamente l’alleanza atlantica, rischiando di mandare in soffitta l’ideologia della difesa delle democrazie liberali e dei valori dell’Occidente [n.d.r. comunque da intendere come falsa coscienza storica] pur di seguire i propri interessi – in ragione delle nuove sfide poste dalla contesa globale – in altri lidi.
È quello che noi leggiamo dalla quasi irreversibile crisi climatico-ambientale.
Abstract: lo sfruttamento delle risorse naturali e l’inquinamento della natura stessa galoppano senza sosta verso scenari danteschi. Le guerre permanenti per le risorse energetiche, le conseguenze dell’attuale guerra in Ucraina, la logica sempre più avvitata su sé stessa di un capitalismo oramai fuori controllo, generano incessantemente guasti e, con lo scorrere del tempo, risulta più difficile porvi rimedio.
Di che parliamo
Mentre molti esperti si affannano – chissà, forse per il caldo sempre più intenso! – a preoccuparsi dei cambiamenti climatici, nel mondo proseguono imperterrite: guerre in territori pieni di centrali nucleari, estrazioni di petrolio utilizzando ogni tipo di tecnica invasiva, iperproduzioni di plastica, immissione di scarti chimici in falde, fiumi e mari, cementificazioni, estrazioni di metalli da tutti i luoghi possibili, utilizzo di carbone a dosi sempre più massicce, ecc. Insomma, il Capitale viaggia e non si ferma certo per qualche grado in più nell’atmosfera.
Se ci riferiamo all’attuale guerra in Ucraina, il rischio nucleare è più che concreto e lo si evince direttamente dagli eventi bellici in atto oramai da più di tre anni. In Ucraina si stanno avendo, oltre alle morti tra la popolazione civile o la sua emigrazione, dei danni irreversibili al patrimonio boschivo e naturale in generale. Il Donbass è la parte dell’Ucraina più ricca di industrie, ma anche di giacimenti dei preziosi metalli per sistemi elettronici d’avanguardia, in particolare del Litio. La fascia di terra che va dalla Bielorussia a nord, fino al mare d’Azov a sud, è ricca di questo minerale, il cui sfruttamento prevede, come ovunque nel mondo, un grosso impatto sull’ambiente. Molti problemi, del resto, si stanno evincendo dall’improvviso abbandono di miniere di carbone, o di stoccaggio di rifiuti tossici prodotti dalle industrie chimiche del paese¹. Senza contare poi il numero sproporzionato di bombe o missili lanciati sul territorio e rimasti inesplosi, oppure le vaste aree disseminate di mine antiuomo o anticarro. Occorreranno anni e chissà a quale costo umano sminare e riportare il tutto a una parvenza accettabile.
Col solito atteggiamento criminale il governo israeliano ha rotto la tregua del 19 gennaio e ripreso a bombardare la popolazione palestinese causando centinaia di morti. Naturalmente i media e la propaganda atlantista, come sempre, hanno tiepidamente evidenziato le responsabilità di Netanyahu e del suo padrino statunitense, per dare risalto alle accuse rivolte contro Hamas. Trump e tutte le amministrazioni americane prima di lui hanno sempre difeso incondizionatamente Tel Aviv, una pedina fondamentale in Medio Oriente, da foraggiare con dollari e armi per i propri fini. A maggior ragione oggi, visti i tempi difficili per l’imperialismo americano in declino.
Dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948 fino a prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 il conflitto ha prodotto 35.000 vittime palestinesi. Il 7 ottobre dopo pochissimo tempo dall’inizio del genocidio messo in atto dal governo israeliano, perpetrato sotto gli occhi di tutti e con la complicità delle cosiddette democrazie occidentali, le cose sono andate ancora peggio rispetto all’esodo forzato del 1948: “Dopo un mese e mezzo dal suo inizio questo conflitto è già la più mortale e distruttiva delle pur numerose tragedie della storia del popolo palestinese. Con 14.854 morti a Gaza al 22 novembre, cui vanno aggiunti più di 200 morti in Cisgiordania nello stesso periodo, si supera la soglia dei 15.000 morti, da confrontare con i 13.000 stimati per l’intera Nakba, la «Catastrofe» del 1948. Anche il fatto che almeno il 40 per cento delle vittime di Gaza siano bambini non ha precedenti. E l’esodo di 1,7 milioni di civili all’interno della Striscia di Gaza supera di gran lunga le maree umane della Nakba e dei suoi circa 750.000 profughi.”¹