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Il 16 giugno 2025 è venuto a mancare il nostro compagno Umberto Paolucci.
Umberto era nato il 2 dicembre 1943, nel cuore della Seconda guerra mondiale, in una Foggia devastata dai bombardamenti delle forze anglo-americane. Ha trascorso la sua infanzia in Puglia e come molti bambini dell’epoca ha passato molte ore della giornata a giocare tra le macerie della città distrutta. Quando il padre, macchinista delle ferrovie dello stato, è stato trasferito in Calabria, la famiglia lo ha seguito andando a vivere a Catanzaro Lido a pochi passi da quel mare Ionio che vedrà Umberto diventare uomo e militante comunista. Meglio sarebbe dire prima comunista e poi uomo, si perché Umberto è diventato comunista prima ancora di essere un adulto. Nonostante il trasferimento in Calabria, Umberto non ha mai perso il legame con la sua terra natia, fatto di ricordi e di continui ritorni verso i luoghi felici della sua infanzia.
Nei primi anni Sessanta la città di Catanzaro era diventata un piccolo laboratorio politico ed in questo contesto che Umberto ed altri giovani catanzaresi si avvicinano al marxismo rivoluzionario. Un approccio agli ideali del comunismo, quello di Umberto, sempre improntato allo studio dei classici del marxismo e alla continua ricerca della conferma di quelle teorie nel contraddittorio operare del capitalismo. Se possiamo sintetizzare l’essere comunista di Umberto in due parole, queste sarebbero: istintivamente e consapevolmente sempre dalla parte dei proletari e contro ogni forma di sfruttamento degli uomini da parte di altri uomini. Il percorso di formazione e orientamento politico si completa nella seconda metà degli anni Sessanta del 900 quando Umberto aderisce al Partito Comunista Internazionalista – Battaglia Comunista.
Era il 1891 quando l’allora pontefice Leone XIII pubblicò l’enciclica Rerum novarum (Delle cose nuove). Una prima formulazione teorica e sistematica, elaborata dal cattolicesimo, anche per dare una risposta (di senso conservativo) alle problematiche sollevate dal movimento operaio che, già nei decenni precedenti, stava trovando risposte teoriche ed organizzative nella prospettiva comunista di Marx ed Engels e mostrava la capacità di rendersi come potenza tra le potenze, di ordine internazionale.
Robert Francis Prevost, il nuovo pontefice, già dalla scelta del nome e con le sue prime dichiarazioni, palesa la volontà di collocarsi nel solco aperto dal suo predecessore. Le cose nuove al cospetto di entrambi i pontefici sono cose diverse tra loro ma trovano ragioni proprie in una cosa ormai vecchia, nel modo di produzione capitalistico. I portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell'industria¹, come lì ebbe a definire Leone XIII, sono aggettivabili oggi allo stesso modo. La prosperità del modo di produzione significa anche trasformare costantemente i metodi dell’industria finché la costante trasformazione non contraddice le condizioni proprie della prosperità.
Trump esibisce muscoli e mascella, ma a tirare troppo la corda, a rischiare di più è proprio l’America.
Non passa giorno senza che dalla Casa Bianca non arrivi l’annuncio dell’introduzione di un qualche dazio su una delle tante merci che gli Usa importano dal mondo intero, per poi fare marcia indietro e rinviare tutto a data da destinarsi. Intanto, Trump e la cricca di miliardari al suo seguito realizzano valanga di soldi speculando sulle oscillazione delle quotazioni di borsa che ne derivano. Più che una precisa strategia di politica economica sembra di assistere a uno di quei teatrini che inscenano i venditori ambulanti nei mercatini rionali. A ben vedere, però, in questo modo di agire si scorgono ragioni che vanno ben oltre gli interessi personali dell’inquilino della Casa Bianca e del suo seguito di plurimiliardari.
Trump giustifica il suo tira e molla dicendo che intende riportare l’America agli antichi splendori dopo che la concorrenza sleale praticata dall’Europa, dalla Cina e perfino dai pinguini delle isole disabitate Heard e MacDonald l’hanno ridotta ad essere il maggior debitore al mondo. Ovviamente è una menzogna. In realtà è stata la borghesia americana che ha trovato più conveniente importare merci dall’estero piuttosto che produrle in patria visto che i dollari con cui le pagava, in quanto anche mezzo di pagamento e di riserva internazionale, per una gran parte erano in realtà assegni che non avrebbero mai fatto ritorno in patria per essere incassati: vere e proprie “cambiali senza scadenza”. Tanto conveniente che l’allora presidente Ronald Reagan, a coloro che temevano che l’accumulare debito su debito, a un certo punto avrebbe potuto costituire una seria minaccia per la stabilità dell’impero rispondeva: «Un alto deficit commerciale e un forte afflusso di capitali stranieri non sono necessariamente un segnale di debolezza, ma piuttosto un segnale di forza [...]. Vista la nostra economia in crescita possiamo permetterci di comprare i beni di chi è meno solido di noi»¹.
Certamente non sorprende, ai nostri occhi, la rappresentazione offertaci dai partiti politici in merito al referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno. Mentre l’area del progressismo borghese, intenta a coltivare il proprio orticello “frontista” in nome della salvaguardia della salute della democrazia, chiama al voto i lavoratori e i “cittadini” italiani, le destre sono impegnate a cavillare sul dettato costituzionale, allo scopo di giustificare la promozione dell’astensione.
Dicono che il referendum sia divisivo. Ci viene presentato come la rappresentazione plastica di due modelli alternativi di democrazia: uno che porrebbe al centro la dignità della persona e il diritto a un lavoro stabile e decente; l’altro, invece, che vorrebbe mantenere lo status quo, spiccatamente liberista e favorevole alle aziende, ai padroni. Questa è, in sintesi, la vulgata sottoscritta anche dai sindacati confederali che hanno appoggiato l’attività referendaria.
Sono vent’anni che Mauro non è più con noi; eppure mai come oggi si avverte il vuoto che ha lasciato. Da allora, la crisi del modo di produzione capitalistico si è ulteriormente aggravata e nell’aria aleggia, come non mai, lo spettro di una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità. L'alternativa storicamente posta in termini di "o socialismo o barbarie" assume grande significato anche nella sua proposizione astratta "o noi, l'intera umanità, o lui, il capitalismo". Da qui l’urgenza di affilare le armi della critica marxista nella prospettiva della rivoluzione comunista. E Mauro, che della causa della liberazione del proletariato dalla schiavitù del lavoro salariato aveva fatto la sua stessa ragion d’essere, in questa lotta, con la passione e la generosità che lo distingueva, sarebbe stato sicuramente in prima fila. Insomma: Mauro ci manca, eccome se ci manca!
2 maggio 2025