Gramsci tra marxismo e idealismo

Creato: 23 Settembre 2009 Ultima modifica: 03 Ottobre 2016
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Gramsci tra marxismo e idealismo

 

Premessa



L’ora di Gramsci

 

Il destino di Gramsci, meritato o no, non è certo da invidiarsi da tutti coloro che, insieme a lui, hanno vissuto il tempo dell’ascesa rivoluzionaria nel clima infuocato della Rivoluzione di Ottobre. La sua vicenda personale è divenuta, nelle mani di uno spregiudicato apparato di partito, uno strumento di infezione ideologica e politica per le nuove generazioni di combattenti che volevano far propria la causa del proletariato e conoscere la teoria rivoluzionaria.

 

Diciamo subito che un conto è la sua vicenda umana che va ricordata nel quadro di una situazione eccezionalmente grave e dolorosa per il proletariato ma soprattutto per i militanti del partito comunista che erano in prima fila nella lotta contro il capitalismo fascista per dare una soluzione rivoluzionaria alla crisi che aveva investito le strutture economiche e politiche del primo dopoguerra, e un conto, invece, la sistematica e interessata strumentalizzazione del sacrificio di Gramsci per coprire una politica di capitolazione e di tradimento.

 

Il Gramsci messo in circolazione dagli uomini che siedono da padroni in via delle Botteghe Oscure è costruito su misura, proporzionalmente alla loro statura di politicanti che hanno bisogno d’un nome e di un sacrificio per farne motivo di pubblicità e di imbonimento di crani disposti al lavaggio, qualunque esso sia. Una tale bisogna, che dovrebbe suscitare ripugnanza, affatica invece biografi ed esegeti, storiografi ed agiografi, letterati e persino poeti che all’unisono hanno riempito e riempiono il mercato librario di quest’ultimo ventennio, a profitto di un partito che li mobilita, con la ricostruzione di un Gramsci di maniera, episodico e dal profilo ideologico tra i più deteriori.

 

Chi ha conosciuto molto da vicino Gramsci ed ha vissuto con lui l’epoca della sua maggiore maturità politica, approfondendo poi tale conoscenza con lo studio accurato ed obiettivo dei suoi scritti posteriori, non può concludere il suo giudizio che in un modo solo, quello cioè di non ritenere l’opera di Gramsci incentrata nel marxismo e realizzata con mente di marxista, con gli strumenti offerti dal suo metodo di interpretazione e con gli obiettivi che gli sono propri.

 

Se in lui era prevalente l’interesse per i problemi contingenti e l’urgenza per le soluzioni immediate e concrete, amava tuttavia idealizzare tutto ciò con fervida creatività quasi volesse equilibrare in tal modo la carica idealizzatrice con la fisica incapacità ad una seria e costante condotta realizzatrice.

 

Tra il materialismo dialettico e la filosofia generata dal mito, Gramsci era in apparenza per il primo, ma di fatto era legato per educazione, per gusto e per tendenza alla seconda. Ciò vuoi dire forse che la speculazione fatta e che si continua a fare, da parte dell’opportunismo, sulla personalità di Gramsci trova nella incompiutezza, nella insufficienza della sua elaborazione teorica e nell’empirismo delle sue indicazioni politiche la sua ragione d’essere e la sua giustificazione? Si può affermare che questa macabra vivisezione da tavolo anatomico dell’intellettualismo di “sinistra” su Gramsci in realtà ha trovato nel suo pensiero e nella sua opera vasta messe di presupposti e di prospettive inconciliabili col marxismo.

 

Alcune precisazioni, anche se affrettate, si rendono necessarie. Di fronte alla I Guerra Mondiale Gramsci non solo è indeciso sulla strada da prendere e non vede la reale natura della guerra, ma è incapace di sentire e giudicare il fenomeno stesso dell’imperialismo dall’angolo visuale di classe e della strategia rivoluzionaria negli stessi anni in cui Lenin e la Luxemburg portavano un contributo d’importanza fondamentale alla elaborazione della teoria rivoluzionaria sul problema della guerra.

 

Sempre sul problema della guerra, nel suo primo articolo apparso sul Grido del Popolo (ottobre 1914) Gramsci scriveva:

 

[…] I rivoluzionari che concepiscono la storia come creazione del proprio spirito, fatta di una specie ininterrotta di strappi operati sulle altre forze attive e passive della società, e preparano il massimo di condizioni favorevoli per lo strappo definitivo (la rivoluzione), non devono accontentarsi della formula provvisoria “neutralità assoluta” ma devono trasformarla nell’altra “neutralità attiva ed operante”.

 

È questa posizione attivistica di “neutralità attiva ed operante” che porterà Mussolini alla teoria della guerra rivoluzionaria, preludio logico al fascismo, ma non porterà Gramsci né alla teoria né alla pratica del disfattismo rivoluzionario.

 

Del resto non è un mistero che non riuscisse a Gramsci di concepire il marxismo se non in chiave idealistica per essere egli rimasto ancorato allo storicismo crociano (la storia come creazione dello spirito) e al suo concetto della libertà. Nell’esaminare la rivoluzione d’ottobre (L’Avanti! 25 luglio 1918) Gramsci scriveva infatti che: “lo sviluppo storico è governato dal ritmo della libertà” la quale “è la forza immanente della storia che fa scoppiare ogni schema prestabilito”.

 

La stessa inclinazione idealistica lo porta a vedere nei Consigli la possibilità obiettiva di precostituire sul tronco stesso del capitalismo le forme e gli istituti della società socialista, mentre rimaneva cieco e sordo di fronte alla necessità storica della formazione del partito rivoluzionario.

 

Il Gramsci posteriore, quale lo abbiamo conosciuto dal Congresso di Livorno a quello di Lione, dal delitto Matteotti alle leggi eccezionali, nel ruolo di capo-partito, è assai meno originale e meno conseguente.

 

Spontaneismo e ruolo della personalità

 

Per chiarire la distinzione tra partito e classe in quanto momenti dello stesso processo, va ricordato il noto riferimento di Lenin al pensiero di Kautsky, riferimento che trovava allora, era l’epoca del Che fare? (1902), la sua giustificazione nell’aspra polemica condotta contro la tendenza economicista e spontaneista. Kautsky negava che la “coscienza socialista sarebbe il risultato necessario, diretto della lotta di classe proletaria” e affermava che socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all’altra e non uno dall’altra; sorgono da premesse diverse. La coscienza socialista contemporanea non può sorgere che sulla base di una profonda conoscenza scientifica. Infatti, la scienza economica contemporanea è, al pari della tecnica moderna, una condizione della produzione socialista e il proletariato, per quanto lo desideri, non può creare né l’una né l’altra; la scienza e la tecnica sorgono entrambe dal processo sociale contemporaneo. II detentore della scienza non è il proletariato ma sono gli intellettuali borghesi; anche il socialismo contemporaneo è nato nel cervello di alcuni membri di questo ceto ed è stato da essi comunicato ai proletari più elevati per il loro sviluppo intellettuale, i quali in seguito lo introducono nella lotta di classe del proletariato, dove le condizioni lo permettono. La coscienza socialista è quindi un elemento importato nella lotta di classe del proletariato dall’esterno e non da qualche cosa che ne sorge spontaneamente. [1]

 

E di rincalzo Lenin:

 

La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia, con le sue proprie forze solamente, è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradeunionista, vale a dire la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc.
La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche ed economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali. Dal punto di vista della posizione sociale, i fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, erano degli intellettuali borghesi. Anche in Russia la dottrina teorica della socialdemocrazia sorse del tutto indipendentemente dallo sviluppo spontaneo del movimento operaio; essa sorse come risultato naturale e inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali socialisti rivoluzionari. [2]

 

Come si vede i termini della questione sono stati posti in modo estremamente drastico e unilaterale quale si addice al linguaggio polemico ma come sempre una verità polemica è soltanto parziale e non esclude, non nega, anzi pone l’esigenza di una verità più generale e conseguente. Commetteremmo un grave errore se riducessimo i termini della questione alla distinzione rigida tra chi, per non avere ancora maturato la “coscienza del fine” è solo in grado di elaborare una coscienza tradeunionista e coloro, gli intellettuali della borghesia, che per essere detentori della scienza e della tecnica sono portatori della coscienza socialista, si finirebbe per cadere in una valutazione quanto mai scolastica, fondamentalmente dualistica, lontana perciò da una visione dialettica del problema. Socialismo e lotta di classe, che, anche se sorgenti da premesse diverse, sono tuttavia il risultato dell’intrecciarsi di due momenti necessari di un unico processo, quello delle vicende di classe.

 

E più chiaramente: dal processo sociale sorgono, è vero, scienza e tecnica, ma non vi sarebbe processo sociale se in esso non operassero forze umane e se queste, a loro volta, non aderissero nella loro azione intimamente al processo stesso e, sotto la spinta di interessi diversi, non esprimessero situazioni di contrasto e di lotta. È in tale ambiente che è nato e si è sviluppato il senso della differenziazione tra le diverse categorie sociali fino a cristallizzarsi in antagonismi di classe.

 

Vi è stata un’accumulazione della conoscenza teorica e della scienza, su cui è andata modellandosi una parallela accumulazione della conoscenza umana, presa questa nel significato di aumento di cognizioni in generale, di affinamento del gusto, della sensibilità e di esigenza di una più acuta curiosità verso il nuovo e lo sconosciuto e il tutto come indice di una sempre più alta manifestazione di vita.

 

In una parola al nesso delle cose si è intrecciato il nesso degli accadimenti umani. Il socialismo non è nato dalla scoperta di una formula, sia pur essa genialissima, non è il risultato di indagini di laboratorio, non è soltanto scienza ma è anche un nuovo modo di porsi il problema della vita, una nuova visione del mondo sorta dallo sviluppo del moderno capitalismo e maturata via via sotto il pungolo delle sue stesse contraddizioni.

 

Se il socialismo è la meta verso cui tende la dialettica della stessa organizzazione economica del capitalismo, è anche la meta a cui sono rivolti gli uomini nella loro insopprimibile aspettativa di uguaglianza e di libertà.

 

Nel momento in cui ad esempio uomini di scienza come Marx ed Engels hanno affondato il loro esame critico nel mondo della produzione capitalistica, si sono avvalsi, essi, figli della borghesia, degli strumenti di indagine che la borghesia stessa aveva approntato in decenni di trasformazioni tecniche e di conquiste scientifiche. C’è solo da chiedersi se questa prodigiosa ascesa, apparsa così particolarmente dinamica sotto la spinta del regime di produzione capitalistica, sia da considerare come dovuta al solo capitalismo o non piuttosto al lavoro umano in cui la classe borghese non appare davvero fattore determinante in confronto al proletariato. Non basta; quand’anche considerassimo l’apporto di Marx e di Engels come opera di studiosi provenienti dalla borghesia, avremmo posto un problema di estrema banalità se mancassimo di situare storicamente la loro critica scarnificatrice e demolitrice del sistema capitalistico sottoposto ad esame.

 

E situarla storicamente significa sentire l’opera critica di questi maestri non solo in termini di scienza ma come quella di uomini che partecipano da protagonisti alla vicenda storica, che considerano come propria la causa di quella classe nel cui destino vive in potenza il destino a venire di tutta l’umanità.

 

Sono gli uomini della polemica più aspra condotta contro il conformismo conservatore che hanno visto nello sviluppo storico del capitalismo la ragione d’essere dello sviluppo storico del proletariato; sono i sistematori della dottrina di classe, i teorici della eversione rivoluzionaria come sbocco naturale dell’insopprimibile lotta tra le due classi fondamentali della storia moderna. Chi ha scritto il Capitale è anche colui che ha scritto il Manifesto dei Comunisti e l’Indirizzo della I Internazionale dei lavoratori. L’uno è inscindibile dall’altro: si tratta in definitiva di transfughi della borghesia che han cessato di pensare e di operare secondo i canoni della cultura borghese ma pensano e operano alla stregua di coloro che sono soggetti al lavoro alienato, in vista della costruzione di una società socialista in cui il lavoro non sia più un peso per l’uomo ma la libera espressione della sua personalità.

 

Sotto questo profilo, e il problema non sopporta un’ipotesi diversa, Marx, Engels e più tardi Lenin e con loro e dopo di loro un esercito di pensatori, di politici, di intellettuali legati al marxismo, hanno tutti avuto il compito di “introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione” ma gli elementi formativi di tale coscienza hanno la loro matrice storica nella classe lavoratrice, si riflettono volta a volta nel cervello di alcuni uomini, come in un laboratorio di sistemazione scientifica, per ritornare quindi alla classe per aiutarla e far sua questa “coscienza del fine” in modo sempre più chiaro e distinto.

 

E ci pare che questo sia anche il modo più corretto, dal punto di vista del marxismo dialettico, di precisare il ruolo della personalità. Nel momento stesso in cui Marx ed Engels affermavano la validità storica della rivoluzione proletaria quale sbocco inevitabile e necessario delle contraddizioni strutturalmente maturate nel grembo della produzione e distribuzione capitalista, mettevano in luce il ruolo antagonista della classe proletaria e sui dati offerti da un’inesorabile analisi scientifica essi ponevano a se stessi, innanzitutto, l’imperativo di operare conseguentemente alle loro convinzioni, di aderire vitalmente alla classe di cui facevano propri gli interessi fondamentali e di fare della dottrina il presupposto teorico d’una milizia politica congeniale al divenire rivoluzionario della classe operaia.

 

La tesi iniziale del materialismo, come noi abbiamo ripetuto, dice che la storia è fatta dagli uomini. E se essa è fatta dagli uomini, è chiaro che essa è fatta, tra gli altri, dai grandi uomini. Non resta che rendersi conto perché precisamente l’attività di questi uomini è determinata. A questo proposito Engels afferma:

 

che un simile uomo si elevi in tale epoca determinata e in un tale paese dato è naturalmente un puro caso. Ma se lo eliminassimo, sarebbe necessario sostituirlo per arrivare finalmente a trovare una soluzione tanto buona che cattiva. E al caso che necessita attribuire il fatto che il dittatore militare di cui la Repubblica francese, prostrata dalle sue guerre, aveva reso necessario l’avvenimento, fu precisamente il corso Napoleone. Ma in mancanza di Napoleone, un altro avrebbe preso il suo posto, ciò è provato dal fatto che l’uomo necessario: Cesare, Augusto, Cromwell o un altro, si è trovato ogni volta che si imponeva.
Se Marx ha scoperto la concezione materialistica della storia, l’esempio di Thierry, di Mignet, di Guizot e di tutti gli storici inglesi fino al 1850, dimostra che si tendeva a questo risultato e la scoperta di questa stessa concezione da parte di Morgan prova che il tempo era maturo per farla e che essa era una necessità.
E proprio di tutti i casi o di tutto ciò che sembra caso nella storia. Più l’ambito che esploriamo si allontana dall’economia e riveste un carattere ideologico astratto, più troviamo il caso nel suo sviluppo, più la sua curva si manifesta in zigzag. Ma tracciate l’asse medio della curva e troverete che, più il periodo in esame è lungo e l’ambito trattato è vasto, più questo asse tende a divenire parallelo a quello dello sviluppo economico. [3]

 

La “personalità” d’ogni uomo eminente nell’ambito intellettuale o sociale appartiene al numero di questi casi la cui apparizione non impedisce in nessun modo la linea “media” dello sviluppo intellettuale dell’umanità di seguire un corso parallelo a quello del suo sviluppo economico. [4]

 

Sotto questo rapporto la figura e l’esperienza di Lenin assumono contorni e significati ancora più precisi. Abbiamo già visto sopra come Lenin in polemica con l’economicismo e gli spontaneismi del suo tempo, ammonisse sul pericolo tradeunionista e fondamentalmente corporativo insito nella lotta che la classe operaia conduce sindacalmente solo con le sue proprie forze contro i padroni, e affidava alla socialdemocrazia e ai suo quadri più preparati il compito di importare dall’esterno la coscienza socialista nella lotta di classe del proletariato. E ad ovviare una interpretazione unilaterale e limitativa, in una parola non dialettica, completava, sempre nel Che fare?, in questo modo il suo pensiero:

 

[…] l’errore fondamentale della “nuova tendenza” della socialdemocrazia russa è di sottomettersi alla spontaneità, di non comprendere che la spontaneità della massa esige da noi, dai socialdemocratici, un alto grado di coscienza. Quanto più grande è la spinta spontanea delle masse quanto più il movimento si estende, tanto più aumenta, in modo incomparabilmente più rapido, il bisogno di coscienza nell’attività teorica, politica ed organizzativa della socialdemocrazia.
La spinta spontanea delle masse in Russia si è prodotta (e si produce ancora) con tale rapidità che la gioventù socialdemocratica ha mostrato di non essere preparata all’adempimento di questi compiti giganteschi. Questa impreparazione è la disgrazia di tutti noi, la disgrazia di tutti i socialdemocratici russi. La spinta delle masse è cresciuta, si è estesa continuamente e di momento in momento; senza cessare dov’era incominciata, essa si è estesa a nuove località e a nuovi strati della popolazione (sotto l’influenza del movimento operaio si è ravvivato il fermento fra la gioventù studentesca, fra gli intellettuali in genere e persino fra i contadini).
I rivoluzionari sono rimasti addietro al progresso del movimento e nelle loro “teorie” e nella loro attività non sono riusciti a creare un’organizzazione che non abbia soluzione di continuità, una organizzazione permanente capace di dirigere l’insieme del movimento. [5]

 

Tutto Lenin è qui, in questa nitida visione dei compiti propri d’una avanguardia concretamente socialista e rivoluzionaria. Non è soltanto il Lenin teorico, l’uomo di scienza, a contatto della realtà del suo paese e delle sue masse operaie — che per necessità ed istinto spingono innanzi la civiltà russa a rompere le ultime vestigia della medioevalità economica e politica e a fronteggiare nel contempo il nuovo asservimento alle macchine imposto dall’invadente capitalismo monopolistico — ma è il combattente rivoluzionario che sente come sua la causa di proletario e nella lotta di ogni giorno vuole trovare la riprova della esattezza teorica del marxismo come dottrina; è, in una parola, il combattente che non vuol rimanere indietro alle masse nella loro spinta innanzi anche quando è fatta d’istinto oscuro e di irrazionalità. In questo caso i Lenin, come portatori d’una aspirazione collettiva, sono tutt’uno con il partito che hanno aiutato a formarsi come teoria, come programma e come struttura, e soprattutto sono tutt’uno con la classe di cui esprimono, col partito, la più alta e la più completa “coscienza del fine”, verso cui la classe operaia in vari modi e con vicende alterne cammina.

 

In uomini così fatti la classe operaia, quale che sia il grado dello sviluppo a cui è pervenuta, trova espressa la coscienza di sé e della sua missione rivoluzionaria, soprattutto individua in loro gli esponenti di una organizzazione permanente capace di dirigere l’insieme del movimento.

 

 

 

[1] Lenin, Che fare?

 

[2] Ibidem.

 

[3] Engels, Der Sozialistcke Akademiker, 1895, Traduzione italiana 1906.

 

[4] Plekhanov, Les questions fundamentales du marxisme.

 

[5] Lenin, op. cit.


 

 

Marxismo e gramscismo



Premarxismo filosofico

 

Può sembrare inopportuno e tutt’altro che agevole parlare del pensiero filosofico e politico di Gramsci in un momento in cui i chierici del neoumanesimo hanno posto il suo nome, dopo la recente e dolorosa vicenda della sua vita, sull’altare dell’esaltazione più irriverente e della credenza più irrazionale e acritica: soprattutto in una situazione in cui questo suo pensiero ha trovato e trova tuttora la giustificazione storica della sua affermazione.

 

Tuttavia ci imponiamo questa messa a punto critica del gramscismo come un dovere che va inteso e compiuto al di sopra d’ogni sentimento anche se umano e giustificato.

 

Si è ubbidito ad una specie di sacro furore che a volte ha rasentato la mania nel riunire ed affastellare gli scritti di Gramsci che man mano vengono alla luce. Uno di questi, e precisamente Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce è apparso particolarmente interessante perché ci consente di trarre alcune considerazioni conclusive rispetto al modo e ai fini con cui Gramsci ha trattato la filosofia della prassi.

 

Per la verità il lavoro si presenta quanto mai frammentario ed eclettico: non precisa un vero e proprio corpo di dottrine filosofiche ma offre tuttavia sufficienti note orientative per rintracciare la vera anima di Gramsci, quella almeno che avevamo avuto agio di conoscere, di ammirare anche ed anche criticare e respingere ai tempi della comune milizia politica.

 

Se viene perciò a mancare una visione d’insieme, quella di scorcio è pur viva; come facilmente individuabile è il filo conduttore di quello stato spirituale che anima il libro e che, in Gramsci, uomo di cultura e di avvertita sensibilità, è tutto.

 

Se fosse preliminarmente necessario situare la posizione dottrinaria di Gramsci nella geografia del pensiero filosofico, noi la collocheremmo senza alcuna perplessità in quel solco del pensiero europeo che ha preso le mosse dall’idealismo hegeliano ed ha trovato la propria continuità nell’indirizzo neoidealistico dello storicismo, dopo aver attinto nutrimento e stimolo dalla potente affermazione della filosofia della prassi che, sorta da questo stesso solco, è apparsa come negazione dialettica in confronto a tutta la filosofia e come suo superamento.

 

Dopo Marx non è pensabile infatti un filosofare che rifletta una esigenza storica ed esprima una particolare visione del mondo in cui gli interessi materiali e le forze politiche e sociali della classe non appaiano spinte all’esplosione rivoluzionaria.

 

La concezione marxista della storia mette fine alla filosofia nel campo della storia, così come la concezione dialettica della natura rende altrettanto inutile quanto impossibile ogni filosofia della natura. Da ogni parte ormai non si tratta più di escogitare dei nessi nel pensiero ma di scoprirli nei fatti. Alla filosofia, cacciata dalla natura e dalla storia, rimane soltanto il regno del pensiero puro, nella misura in cui esso continua a sussistere […]. [6]

 

In questo senso il pensiero di Gramsci non devia dal marxismo per defluire nel solco della filosofia tradizionale; non compie lo sforzo di rompere con essa ma si serve di tutte le sue premesse ritenute criticamente valide per orientarsi in qualche modo verso una particolare interpretazione del marxismo. Come si vedrà più innanzi la vera matrice di questo pensiero non si trova nell’affermazione della dialettica rivoluzionaria di Marx-Engels, ma in quelle correnti anti intellettualiste e di reazione allo scientismo positivista che pur essendo sorte dopo Marx si riannodano per mille capi all’idealismo pre-marxista; il neorealismo filosofico e politico è andato invece alimentandosi, e assai abbondantemente, alle scuole, da Bergson a Croce, che si erano poste il problema di riabilitare i diritti della ragione e sotto questo rapporto di trovare la connessione tra pensiero e vita.

 

Gramsci stesso precisa, delimita, localizza quasi il suo pensiero quando afferma che:

 

solo la filosofia della prassi sia la concezione conseguentemente “immanentistica”. Sono specialmente da rivedere e criticare tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo. Si potrebbe scrivere un nuovo Anti-Dühring che potrebbe essere un “Anti-Croce” da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le forme deteriori della filosofia della prassi. [7]

 

Afferma in altre parole che la filosofia della prassi non soltanto è la sola conseguente in confronto a tutta la filosofia immanentistica ma serve da testa di ponte nella lotta su due fronti, contro la filosofia speculativa da una parte e contro ogni formulazione di positivismo e di materialismo deterministico dall’altra.

 

Precisa inoltre la derivazione della filosofia della prassi dalla concezione immanentistica,

 

ma depurata questa da ogni aroma speculativo e ridotta a pura storia o storicità e a puro umanesimo […]. Non solo la filosofia della prassi è connessa all’immanentismo ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fatto storico. [7]

 

Ma allora tutta la filosofia ereditata dal Rinascimento è allo stesso modo immanentistica e soggettiva: l’infinità dei mondi di Bruno, il razionalismo di Cartesio e l’empirismo, la monade di Leibniz, l’illuminismo e la filosofia classica tedesca; tutte queste correnti di pensiero sono pervase dalla concezione immanentistica e soggettiva perché immanentisticamente e soggettivamente si è espressa l’esigenza del moto della moderna borghesia e l’epoca storica del formarsi delle moderne nazionalità. Allo stesso modo è immanentistica e soggettiva la dialettica formale dello storicismo che concepisce la storia come svolgimento, come corrente e come flusso perenne entro cui ininterrotta circola l’attività della provvidenza o, che è lo stesso, dello spirito di cui è sempre così pieno l’immanentismo umanistico.

 

D’altro canto come può considerarsi immanentistica e soggettiva la dialettica rivoluzionaria che il singolo annulla fondendola nel collettivo, che alla continuità e al progressivo contrappone l’urto, l’eversione e il superamento violento?

 

Gli è che la dialettica formale dello storicismo è concezione propria del moto borghese, mentre la dialettica rivoluzionaria — concezione di una nuova società la cui apparizione come forza egemonica sarà il risultato di una profonda radicale lacerazione nel mondo delle cose prima ancora che nel mondo degli uomini — afferma che nella storia umana non vi è conciliazione di termini opposti, ma il loro contrasto in cui l’un termine deve necessariamente negare l’altro perché ne scaturisca una ulteriore affermazione di vita. “La contraddizione è ciò che spinge innanzi” ha scritto Hegel, ed è esatto.

 

C’è nel libro un pullulare di definizioni della filosofia della prassi: “Essa è il materialismo (quello francese del secolo XVIII) perfezionato dal lavoro della stessa filosofia speculativa e fusosi con l’umanesimo”; più plasticamente “…è uguale ad Hegel più Davide Ricardo”; e con più precisione filosofica “…è il rapporto tra la volontà umana (sovrastruttura) e la struttura economica”. Nelle quali la concezione immanentista non poteva essere espressa con maggiore evidenza e precisione.

 

Donde si origina per Gramsci la filosofia della prassi? Forse dall’apparizione del proletariato come classe e dal suo divenire di forza rivoluzionaria in contrasto con la classe del capitale che lo ha originato e potenziato nell’ambito stesso del proprio sviluppo? Forse dall’aver visto i termini di questa realtà storica in Marx ed Engels che hanno elaborato i principi di questa teoria che veniva a costituire lo strumento più preciso e più valido non solo del pensiero e della conoscenza umana ma della stessa conquista rivoluzionaria?

 

Non faceva del resto Engels, erede della filosofia classica tedesca, proprio il movimento operaio tedesco?

 

Ma ben altro è il suo processo formativo. Secondo Gramsci la filosofia della prassi è nata…

 

da tutto un passato culturale i cui termini più noti e salienti sono la Rinascenza e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e l’economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita.

 

E due erano i compiti che egli poneva a questa filosofia; quello di combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata per poter costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti e quello di educare le masse popolari la cui cultura era medioevale. Questa visione della prassi come esigenza di cultura e come riforma popolare moderna in Gramsci si amplifica e si definisce, col metodo dato dall’intuizione ricardiana del “posto che”, della premessa che da una certa conseguenza si pongono i termini d’una nuova gnoseologia. Il concetto di “necessità storica” è strettamente connesso a quello di “razionalità”; ed esiste necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli uomini sia divenuta operosa, ponendo dei fini concreti alla coscienza collettiva. E chiarisce ulteriormente:

 

Nella premessa devono essere contenute, già sviluppate o in via di sviluppo, le condizioni materiali necessarie e sufficienti per la realizzazione dell’impulso di volontà collettiva; ma è chiaro che da questa premessa materiale calcolabile quantitativamente, non può essere disgiunto [il corsivo è nostro] un certo livello di cultura, un complesso cioè di atti intellettuali e da questi un certo complesso di passioni e sentimenti imperiosi, cioè che abbiano la forza di indurre all’azione a tutti i costi. [7]

 

Quel “disgiunto” non è stato messo lì a caso, che troppo grande era in Gramsci il senso e il valore da attribuire all’uso dei vocaboli, ed esprime con chiarezza il fondo del pensiero gramsciano più di qualsiasi dissertazione. Il concepire perciò il complesso di atti individuali e di passioni e sentimenti non disgiunto dalla premessa materiale è sì concepire immanentisticamente, ma in nessun caso è porre un’istanza dialettica e tantomeno deterministica.

 

In tal modo il senso della storia non è dato da quel procedere dal basso, dalla struttura, dal mondo delle cose e dalla tecnica e dagli interessi legati a questo mondo, e infine dai rapporti di classe che ne caratterizzano la vita sociale, politica e culturale, ma ciò che nella storia è realmente vivo, ciò che conta, anche se riferito al materiale e al quantitativo, per giungere ad una concezione storicistica del razionale, deve provenire da quel complesso e fluido mondo della cultura, degli stimoli intellettuali, dei sentimenti e passioni a cui attinge la volontà, che in definitiva è la sola atta ad indurre all’azione “a tutti i costi”. Nella quale concezione è del resto assai palese l’influenza esercitata su Gramsci da quella nuova metafisica sorta dal pensiero filosofico francese degli ultimi decenni dell’Ottocento.

 

Nell’opera di Gramsci le classi, queste tragiche protagoniste della storia, i loro interessi economici, il complesso dei loro rapporti sociali, la dinamica del loro procedere e del loro regredire non appaiono che in ombra, mentre la nota dell’individualità, della conoscenza e volontà individuale vi è dominante.

 

Anche quando esamina l’uomo in rapporto con gli altri uomini questa nota della individualità non si attenua ma vi trova motivo di potenziamento.

 

L’uomo è concepito come una serie di rapporti, e questi sono concepiti attivi e coscienti, corrispondenti cioè ad un grado maggiore o minore d’intelligenza che di essi ha il singolo uomo.

 

Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento [il corsivo è nostro].

 

Più oltre e più chiaramente:

 

Ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti, ma anche della storia di questi rapporti, cioè il riassunto di tutto il passato. Si dirà che ciò che ogni singolo può cambiare è ben poco in rapporto alle loro forze.
Ciò è vero fino a un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e se questo è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento, ecc. [7]

 

Momento “catartico” cioè passaggio dalla necessità alla libertà visto e sentito non in funzione della socialità e della classe ma in funzione sempre del singolo.

 

Non vi è dubbio alcuno che la società è formata da individui e che ogni fenomeno sociale è la risultante di volontà, di atti, di sensazioni e di sentimenti individuali. Ogni fenomeno sociale è cioè la risultante di fenomeni individuali.

 

Ad esempio, nella determinazione del prezzo delle merci sul mercato, noi ci troviamo di fronte ad un fenomeno sociale che risulta dall’incontro di volontà particolari, quelle del venditore e quelle del compratore. Ma questo è un fenomeno sociale che non esprime più nel suo generalizzarsi il desiderio e lo stimolo relativo a questo o quel venditore, a questo o quel compratore. Allo stesso modo avvengono tutti i fenomeni sociali che Marx ritiene indipendenti dalla coscienza, dal sentimento e dalla volontà degli uomini; e non c’è centro di annodamento che possa limitare o annullare questa indipendenza! Al contrario sentite come Gramsci idealizza la sua concezione del singolo:

 

Bisogna elaborare una dottrina [la postulazione è giustissima in quanto quella di Marx è un’altra e ben diversa dottrina, n.d.a.] in cui tutti questi rapporti sono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che sede di questa attività è la coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea in quanto già conosce, ammira, crea, ecc. e si concepisce non isolato ma ricco di possibilità offertegli dagli altri uomini e dalla società delle cose di cui non può non avere una certa conoscenza. [7]

 

Non si poteva segnare con più evidenza il limite estremo di questo pensiero nella sua caratterizzazione dal marxismo. Rifacciamoci ora alla nota formulazione di Marx:

 

Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale determina il processo della vita sociale, politica e spirituale in generale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, è al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. [8]

 

A questa formulazione estremamente precisa di Marx, divenuta motivo conduttore della vera filosofia della prassi, Gramsci arzigogola questa nota di commento:

 

La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica della Economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura nel terreno dell’ideologia deve essere considerata come una affermazione di valore gnoseologico e non puramente psicologico e morale. [7]

 

Così il pensiero di Marx evirato del motivo profondo ed essenziale che è il prius deterministico rappresentato dalla struttura, viene ricacciato nella paccottiglia della filosofia immanentistica tradizionale.

 

Una volta eliminata l’idea madre della determinazione non restava a Gramsci che rifarsi alla reciprocità dei fattori della storia. Sentitelo:

 

La struttura e la superstruttura formano un “blocco storico”: cioè l’insieme complesso, contraddittorio e discorde della soprastruttura è il riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione.

 

Ed esemplifica:

 

Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100% per l’ideologia, ciò significa che esistono al 100% le premesse per il rovesciamento, cioè che il “razionale” è reale attuosamente e attualmente. [Sia benedetta la memoria di Hegel!, n.d.a.]. Il ragionamento si basa sulla reciprocità necessaria tra struttura e sovrastruttura [reciprocità che è appunto il processo dialettico reale — nda]. [7]

 

Questa idea del “blocco storico” assume per Gramsci quasi l’importanza d’una scoperta filosofica, tanto che ci ritorna su per precisare che le forze materiali sono il “contenuto” e le ideologie la “forma”. E che ciò possa avere valore di scoperta e suggestione di novità, noi davvero non diremmo.

 

Troppo spesso, troppo appassionatamente anche se non sempre giustamente, Gramsci sì fa scudo del sano realismo di Lenin.

 

Contro l’idea del “blocco storico” che logicamente consegue a quella della coscienza del singolo come sede dei rapporti sociali riportiamo le sferzate che, attraverso Bogdanov, Lenin dava agli immanentisti, agli empirocriticisti e agli empiromonisti:

 

Noi respingiamo — scriveva — di primo acchito tutte le premesse filosofiche comuni a questa trinità.

 

E confutando l’assunto idealistico per il quale “l’esistenza è la coscienza” esemplifica:

 

[…] il contadino che vende il suo grano, entra in “rapporto” con i produttori mondiali del grano sul mercato mondiale ma senza averne coscienza; senza aver coscienza dei rapporti che si stabiliscono in seguito a questi scambi. La coscienza sociale riflette l’esistenza sociale, questo è il pensiero di Marx. [9]

 

Il pensiero di Gramsci ci dà invece l’uomo economico che è nel contempo uomo etico; e in quanto conosce e crede e opera è anche uomo storia; come nel vasto processo di variabilità dei rapporti sociali egli torna a darci l’idea ossessiva dell’individuo, sempre dell’individuo quale loro centro di annodamento. Croce parla di nesso dei distinti in forma di circolarità, ma il senso ne è identico. Ma chi c’è oltre l’individuo?

 

Le stesse societas hominum e societas rerum sono termini astratti nell’epoca della massima e a volte terribile affermazione del collettivo. Oggi si pensa in termini di socialità e di classe. Il fatto che vivete, che avete un’attività economica, che procreate, che fabbricate prodotti, che li scambiate, determina una concatenazione oggettiva necessaria di avvenimenti, di sviluppi, concatenazione indipendente dalla vostra coscienza sociale che non può mai abbracciarla nella sua totalità. Il fine più nobile dell’umanità è quello di abbracciare questa logica oggettiva del processo economico nei suoi tratti generali e principali, onde adattarvi il più chiaramente e il più nettamente possibile, col più grande spirito critico, la sua coscienza sociale e la coscienza delle classi avanzate di tutti i paesi capitalistici. [9]

 

Vi è dunque una coscienza sociale che deve tradursi in volontà di realizzazione sociale; vi deve essere cioè un ritorno realizzatore della volontà sul complesso della struttura che l’ha suscitata.

 

La coscienza del divenire storico della classe è determinata, è vero, da quel particolare modo di essere delle condizioni materiali che ne costituiscono le premesse; ma se questa coscienza di classe non si traduce in una volontà di realizzazione di classe il momento dialettico dell’eversione non si opera, viene ancora rimandato nella storia.

 

Non si può affermare, ad esempio, che manchino oggi le premesse all’atto rivoluzionario; va soltanto constatato che il proletariato si mostra incapace a tradurre la coscienza più o meno completa del suo essere di classe in volontà di realizzazione rivoluzionaria. Ed è questa la ragione prima della crisi del nostro tempo.

 

Manca in una parola al pensiero di Gramsci la vibrazione della dialettica rivoluzionaria, il senso profondo dello “sdoppiamento di ciò che è uno e la conoscenza delle sue parti contraddittorie”. [9] Soprattutto gli manca il senso drammatico dell’urto, dell’inevitabile lacerazione, del superamento che è nella filosofia della prassi in quanto è nella società umana divisa in classi e quindi nella storia.

 

E aggiungiamo con Lenin che:

 

non si può togliere nessuna premessa fondamentale a questa filosofia del marxismo fusa in acciaio, tutta d’un pezzo, senza allontanarsi dalla verità oggettiva, senza cadere nella reazionaria menzogna borghese […]. O il materialismo conseguente fino in fondo o la finzione e la confusione dell’idealismo filosofico. [9]

 

L’aspra invettiva di Lenin è rivolta a tutti coloro che, come Gramsci, al posto di materializzare il dominio dei fenomeni sociali hanno inteso metafìsicizzare le condizioni materiali da cui quei fenomeni si producono.

 

Il dissenso tra gramscismo e marxismo, come si vede, è fondamentale; e i motivi in sede dottrinaria vanno ricercati nella posizione di contrasto tra il neo-idealismo storicistico e il materialismo dialettico che per noi esprime il contrasto insanabile, tra le due classi fondamentali della storia, che andiamo vivendo.

 

Presupposti teorici al gramscismo

 

Lo schema di Gramsci: “intellettuali, organizzazione del consenso, egemonia” che informa di sé e in modo determinante l’attuale neorevisionismo di tanta parte dei partiti comunisti dell’occidente europeo, non trova il suo presupposto teorico in nessuna scuola marxista degna di questo attributo ma è preso di sana pianta da tutta la metodologia e da alcuni principi filosofici del Croce. È lo stesso Gramsci a ricordarlo, precisando:

 

Nel febbraio del 1917, in un breve corsivo che precedeva la riproduzione dello scritto del Croce Religione e serenità allora uscito di recente nella Critica, io scrissi che come l’Hegelismo era stato la premessa di una ripresa della filosofia della prassi nel secolo XIX, alle origini della civiltà contemporanea, così la filosofia crociana poteva essere la premessa di una ripresa della filosofia della prassi nei giorni nostri, per le nostre generazioni […].
Bisogna che l’eredità della filosofia classica tedesca sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare vita operante e per ciò fare occorre fare i conti con la filosofia del Croce, cioè per noi italiani essere eredi della filosofia classica tedesca significa essere eredi della filosofia crociana, che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca [il corsivo è nostro]. [7]

 

Vogliamo concludere questo schema del pensiero di Gramsci con le considerazioni che lo stesso Gramsci esprime nel fare il punto a questo stesso schema già elaborato dal Croce che rappresenta nella concezione crociana della storia, come storia etico-politica, il punto nodale del suo pensiero filosofico e precisarne così i caratteri della ereditarietà ed assimilazione a discapito della tanto conclamata originalità Gramsciana.

 

Per la filosofia della prassi — scrive sempre Gramsci — lo stesso metodo speculativo non è futilità, ma è stato fecondo di valori “strumentali” del pensiero nello svolgimento della cultura, valori strumentali che la filosofia della prassi si è incorporati (la dialettica, per esempio).
Il pensiero del Croce deve dunque, per lo meno, essere apprezzato come valore strumentale, e così si può dire che esso ha energicamente attirato l’attenzione sull’importanza dei fatti di cultura e di pensiero nello sviluppo della storia, sulla funzione dei grandi intellettuali nella vita organica della società civile e dello Stato, sul momento dell’egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto.
Che ciò non sia “futile” è dimostrato dal fatto che contemporaneamente al Croce, il più grande teorico moderno della filosofia della prassi [è evidente l’allusione a Lenin, n.d.a.] nel terreno della lotta e dell’organizzazione politica, con terminologia politica, ha, in opposizione alle diverse tendenze “economistiche”, rivalutato il fronte della lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia [in questo caso egemonia è quella del proletariato, n.d.a.] come complemento della teoria dello Stato-forza [cioè della dittatura del proletariato, n.d.a.] e come forma attuale della dottrina quarantottesca della “rivoluzione permanente” [ipotizzata da Marx — nda]. [7]

 

Abbiamo voluto che fosse lo stesso Gramsci a dire di sé e della sua vicenda culturale e storico-filosofica; tra questo groviglio di correnti varie contraddittorie espresse in modo eclettico, ora è possibile trarre l’essenziale che caratterizza il nucleo teorico su cui Gramsci modellò il suo modo di concepire la politica in generale negli anni ‘20 e quella del partito rivoluzionario in particolare. Si tratta di un nucleo di formazione composita; vi si trova in origine Croce con i tre canoni fondamentali del blocco storico; intellettuali, organizzazione del consenso ed egemonia, che divengono fondamento della tematica Gramsciana con in più un pizzico di influenza di certo neoidealismo francese, soprattutto di Sorel.

 

Il marxismo nell’ispirazione e realizzazione leniniana, vi entra di scorcio, quasi per incidente e sempre come momento di curiosità intellettuale, quanto mai viva ed attenta in Gramsci, teso ad ogni forma di indagine speculativa.

 

Questo spiega il tentativo, del tutto arbitrario, di inserire persino l’esperienza teorico-politica, quella della rivoluzione di Ottobre, nel quadro del pensiero crociano come se la dittatura del proletariato, ad onta della sua transitorietà, degli “effetti disgreganti” del vecchio “blocco storico” non ancora completamente disgregato, fosse compatibile con l’assunto crociano della storia come storia della libertà, che considerava antistoria ogni forma di dittatura e conseguentemente estranea alla storia. E non è che Gramsci ignorasse che Marx teorizzò la necessità di una fase di transizione sulla base di una ferrea egemonia di classe, che è poi la dittatura del proletariato, insegnamento che ci proviene dalla Comune di Parigi e che Lenin realizzò con la rivoluzione d’Ottobre. Ma era necessario uscire da un’indagine soprattutto culturale ed imboccare la via di una valutazione di classe non sempre presente e mai prevalente nel mondo ideologico-politico gramsciano.

 

La parte più sconcertante in questo accostamento di Lenin a Croce fatto dal Gramsci non possiamo certo intenderlo futile in quanto ne deriva che Croce e quindi… Lenin “ha, in opposizione alle diverse tendenze economicistiche, rivalutato il fronte della lotta culturale” venendo così a spezzare il nesso tra i due termini della contraddizione, il dato obiettivo economico, il prius della determinazione e il mondo della sovrastruttura, dividendo così con un solco incolmabile la dialettica rivoluzionaria del marxismo dalla dialettica formale propria di tutti i trasformismi “innovatori”.

 

A questo punto c’è da chiedersi non tanto quali e quanti sarebbero stati gli sviluppi ulteriori del pensiero filosofico e politico di Gramsci se una fine prematura e drammatica non ne avesse spezzato il corso ma, sulla base di un esame obiettivo degli scritti e del comportamento del dirigente politico, quali responsabilità gli vanno attribuite, a suo merito o demerito, per il nuovo corso imposto al PCI e realizzato, più o meno correttamente, in suo nome.

 

Se è vero che per noi italiani, come affermava Gramsci, essere eredi della filosofia classica tedesca significava “essere eredi della filosofia crociana che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca”, bisogna dare atto a Gramsci che lo svolgimento degli accadimenti posteriori è la conferma viva dell’esattezza della sua previsione. Solo che è certamente vero in chiave idealistico-liberale, cioè croce-gramsciana, ma è certamente non vero in chiave marxista; l’una indica soluzioni liberal-riformiste, l’altra indica una soluzione rivoluzionaria.

 

La teoria del rovesciamento della prassi della sinistra hegeliana elaborata da Marx in modo sistematico segnò il ruolo prioritario e determinante del “materiale” sull‘“ideale”, del mondo strutturale dell’economia su quello sovrastrutturale delle idee e della volontà umana in un processo di interdipendenza, conquista questa d’importanza fondamentale per il suo contenuto rivoluzionario che affida al proletariato il compito di portarlo a compimento e che l’eclettismo teorico di Gramsci non può né oscurare né distorcere. Abbiamo detto eclettismo perché in definitiva in Gramsci il “problema della ricomposizione del marxismo” altro non è stato che una intelligente riappropriazione di più scuole e tendenze mai completamente fuse in unità. Bisogna allora sciogliere il nodo interpretativo in cui si è impigliato il pensiero di Gramsci e rifarsi alle fonti del materialismo dialettico per vedere il ruolo di fondo attribuito all’economico (mondo della struttura) nel nesso dialettico col pensiero umano (mondo della sovrastruttura). E cominciamo con un aforisma di Feuerbach “il vero non è ciò che è stato pensato ma ciò che è stato, nello stesso tempo che pensato, ugualmente visto, inteso e sentito”.

 

Così Feuerbach poneva in essere concettualmente i termini del rovesciamento anche se poi perverrà all’errore di una determinazione materialistica, errore esattamente uguale ed opposto a quello del suo maestro Hegel, in una concezione materialistica assoluta priva di sviluppo per l’assenza di un vivificante rapporto dialettico.

 

Spetterà a Marx il compito di storicizzare il rovesciamento precisando, in confronto con la concezione hegeliana, la differenza esistente tra la dialettica materialistica e la dialettica idealista.

 

[…] Il mio metodo dialettico — afferma Marx — non solamente si distingue essenzialmente da quello di Hegel, ma gli è diametralmente opposto. Per Hegel, il processo del pensiero, che egli trasforma sotto il nome di idee, in un soggetto indipendente, è il demiurgo (creatore) della realtà, che non è che la manifestazione esteriore. Ma per me è giusto il contrario: l’ideale non è niente altro che il materiale tradotto e riordinato nel cervello dell’uomo.
Sotto la sua forma razionale, la dialettica non è agli occhi della borghesia e dei suoi difensori dottrinari che scandalo e errore perché alla comprensione positiva di ciò che esiste la dialettica aggiunge nel tempo stesso la comprensione della negazione, della rovina necessaria dello stato di cose esistente.

 

E’ sempre Marx che precisa:

 

la mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico. [10]

 

L’atteggiamento tattico e l’obiettivo strategico del partito rivoluzionario di fronte agli intellettuali in genere e alle classi medie da cui gli intellettuali generalmente provengono, hanno in ogni epoca interessato, quando non appassionato, l’attenzione dei centri direzionali dei partiti che si sono susseguiti nelle varie fasi delle lotte del proletariato dissolvendosi, ogni volta, nelle nebbie di molteplici esperienze che non sono andate oltre l’utilitarismo politico più pragmatico e contingente dei blocchi e dei compromessi più o meno “storici” in un clima socio-politico come quello che ha sempre dimorato nel nostro paese in cui il pasticcio, l’intrigo, l’amore per l’aggregazione più sterile e opportunistica sono di casa.

 

Nella nostra storia più recente, gli anni 1919-26 assegnano la fase particolarmente più viva e significativa che consente di affondare nel concreto un’analisi del duplice processo di scissione e di aggregazione per quanto riguarda il ruolo degli intellettuali.

 

Per Gramsci sono gli anni della indecisione, della ricerca di un orientamento valido che fosse base e centro focale alla tormentata ansia d’una maturità ideologico-politica che si è avuta sì, ma su un piano diverso e per buona parte distorto in confronto a quello offerto dalla dottrina rivoluzionaria del marxismo, pagina certo singolare anche se parziale e inadeguata alle istanze della lotta operaia che stava per uscire dalle strettoie della guerra.

 

Conclusa la fase consigliarista del primo ordinovismo, indeciso sul problema di fondo del partito, Gramsci passa qui inosservato attraverso lo sforzo formativo del partito rivoluzionario tanto ad Imola che a Livorno, succube in buona o cattiva fede della potente e prepotente personalità di Bordiga. Ma la comunanza di lavoro e di responsabilità al centro del partito ebbe vita breve e non poteva accadere diversamente. A differenza di un Bordiga bonariamente estroverso, poliedrico, che nel dialogo andava al centro dei problemi sulla linea rigida della metodologia marxista e con la certezza assiomatica del matematico che non attende obiezioni ma solo di essere ascoltato, Gramsci all’opposto era per natura assai meno loquace, in tutto vegetativo ma con una prodigiosa capacità di vita interiore e di fervida e varia creatività spirituale sotto l’aspetto esteriore di un’estrema modestia e timidezza e, nel contempo, una sottaciuta volontà di potere personale, dati questi non necessari ma certo non fortuiti in chi ha poi dato la prova di avere appreso l’arte della politica in funzione dello Stato moderno dalle pagine del Principe di Machiavelli.

 

Lotta di classe e teoria dello “spirito di scissione”

 

In Gramsci l’analisi della storia, del corso cioè delle vicende umane, è particolarmente basata sull’osservazione dei processi molecolari che si sviluppano nell’interno della società in un succedersi di spinte di forze in movimento che provocano una serie ininterrotta di aggregazioni e disgregazioni, una visione immanentistica che egli definisce “spirito di scissione”.

 

Non siamo, è evidente, ad un tentativo di elaborazione teorica di un modo nuovo e organicamente definito di analizzare la storia e pervenire ad una diversa e originale visione del mondo ma è una costante negli scritti di Gramsci privilegiare il particolare, l’aneddoto, l’episodico come confluenti attivi e caratteristici nella formazione d’ogni seria spinta scissionistica in fase di crescita. Potrebbe essere questo un metodo valido di analisi del particolare, non fine a se stesso ma come approfondimento di conoscenza del ruolo che giocano le forze subalterne nel loro muoversi e polarizzarsi tra le due classi storiche che si contendono la supremazia:

 

[…] lo spirito di scissione — precisa Gramsci — deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali; tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana. [11]

 

L’errore sta nell’aver fissato l’attenzione critica sul ruolo delle stratificazioni marginali, classi medie e piccola borghesia, mancanti per loro natura di una connotazione precisa di classe e di non averle considerate come forze socio-politiche il cui comportamento tattico è del tutto episodico e contingente, espressione cioè del variare di situazioni obiettive nel contesto della classe dominante operante unicamente ai fini di soluzioni parlamentari, secondo una strategia di consolidamento del sistema e dei suoi organi di potere. L’errore cioè, è di aver sottovalutato l’urto permanente ed insanabile tra le due classi fondamentali, preminente in questa fase di crisi profonda del capitalismo decadente, e di non far convergere la somma dei centri di disgregazione e insieme di scissione dal terreno della classe in disfacimento a quello della classe opposta, divenuta polo di attrazione e di convergenza per una liberazione totale; che è poi superamento rivoluzionario ed avvio al socialismo. Si tratta in una parola, di imboccare e percorrere la strada opposta a quella parlamentare — che riduce i centri di disgregazione e di scissione periferici della classe a motivi di trasformismo del sistema, per rimanere nel suo ambito nella illusione di farne una cosa diversa — la strada così indicata dalla storia che non trasforma ma rivoluziona, la strada dello scontro della classe contro classe.

 

La teoria Gramsciana dello spirito di scissione sottintendeva una linea politica del Partito Comunista d’Italia non più coincidente con i motivi ideali, con le strutture organizzative, con la tattica e la strategia del partito di Livorno. Si è andata così precisando la linea di netta separazione tra una politica che si sviluppa nel senso del marxismo rivoluzionario e mira ad investire con una lotta permanente le forze politiche e gli istituti della classe avversa e la politica dei revisionisti che intendevano spostare l’asse sul piano d’una realtà democratica in cui si riteneva possibile lo sviluppo d’una linea politica di crescita del partito aggregando a sé le forze intermedie che nel corso delle crisi cicliche del sistema si trasformano in forze di disgregazione e di scissione da cui nasce la tattica delle alleanze e del fronte unico. Si stanno precisando tutte quelle premesse teoriche, care all’ordinovismo prima maniera, con gli adattamenti imposti dalla nuova situazione, messi in evidenza dallo scontro teorico accesosi con l’iniziativa del Comitato d’Intesa e che avrà il suo compimento con il Congresso di Lione (1926). Sono in tal modo presenti e operanti i coefficienti che daranno vita a quel processo degenerativo le cui tappe si caratterizzeranno come qualche cosa di più e di peggio, almeno nella sua fase iniziale, di un semplice appiattimento dell’analisi marxista.

 

Ciò che è estremamente chiaro nel discorso Gramsciano è che alla teoria della contrapposizione dualistica del procedere della storia, propria del marxismo, ha posto come problema centrale a tale procedere la concezione pluralistica del succedersi progressivo, quasi per legge fisica, del movimento molecolare delle forze sociali, storicamente subalterne; in altre parole alla visione catastrofica del superamento dialettico che presupponeva come inevitabile la chirurgia dell’atto rivoluzionario, contrappone quella di una serie di passaggi, idealisticamente ad infinitum, da forze in fase di disgregazione in forze in fase di aggregazione secondo una dinamica di linearità progressiva. Altra considerazione distintiva e d’importanza fondamentale è che il marxismo dà funzione di priorità al fattore economico, che riflette le proprie spinte nel mondo della sovrastruttura, mentre per la metodologia Gramsciana tutto si svolge sul piano della sovrastruttura attraverso un processo molecolare dei fattori socio-economici e politico culturali, tutti confluenti, indistintamente, al compimento della vicenda storica. Ed è questo il processo che Gramsci ama definire, con termini tra loro contradditori, la fase della “rivoluzione passiva” che, al massimo, modifica e trasforma, nel bene come nel male, ma non spezza il tessuto economico e politico di un sistema, per crearne un altro diverso ed opposto. Insomma il senso della passività dà alla rivoluzione un carattere di permanenza, “rovesciata” in confronto a quella elaborata da Trotsky, perché lanciata lungo i binari del sistema vigente che non sarebbe mai pervenuta alla stazione di partenza della rivoluzione attiva. Non a caso i riferimenti storici su questo tipo di rivoluzione passiva sono prevalentemente legati, in modo episodico e contingente, ad una rivoluzione mancata (né attiva né passiva quindi quella) del Risorgimento italiano.

 

Si può applicare al concetto di rivoluzione passiva (e si può documentare nel Risorgimento italiano) il criterio interpretativo delle modificazioni molecolari che in realtà modificano progressivamente la composizione precedente delle forze e quindi diventano matrici di nuove modificazioni. Così, nel Risorgimento italiano, si è visto come il passaggio al cavourismo (dopo il 1848) di sempre nuovi elementi del Partito d’Azione ha modificato progressivamente la composizione delle forze moderate, liquidando il neoguelfismo da una parte e, dall’altra, impoverendo il movimento mazziniano (a questo processo appartengono le oscillazioni di Garibaldi, ecc).
Questo elemento pertanto è la fase originaria di quel fenomeno che è stato chiamato più tardi “trasformismo” e la cui importanza non è stata, pare, finora, messa in luce dovuta come forma di sviluppo storico. [12]

 

Che il trasformismo sia stato e sia tuttora una costante non secondaria nella storia dei partiti parlamentari non esclusi quelli che si richiamano alle masse lavoratrici, è caratteristica di fondo di ogni regime parlamentare e lasciamo ai Gramsciani di oggi il rammarico per il tardivo riconoscimento di considerare tale pratica della politica come forma di sviluppo storico.

 

Data una tale premessa teorica (di considerare il trasformismo come una componente indifferenziata delle vicende politiche dei partiti), c’è da chiedersi fino a che punto Gramsci sia stato presago e responsabile insieme delle future vicende del partito che, nato a Livorno come partito del proletariato rivoluzionario, è finito nella melmosa pratica politica del più spregevole e ingannevole trasformismo parlamentare pur di accedere all’area del potere come ultima trincea di difesa dell’attuale sistema di produzione capitalistica.

 

In questo quadro quali sono le forze sociali che vi operano e, su di esse, quale la funzione e le reali influenze degli intellettuali? Dobbiamo tenere presente che a questo argomento Gramsci ha dedicato largo spazio, forse troppo, di ricerca storica e di particolare attenzione critica, con la stessa passione e unilateralità con cui ha espresso quel ruolo di intellettuale sia nell’esame della questione meridionale sia nella funzione dei Consigli sul piano della lotta operaia nell’ambito prevalentemente industriale; si può dire che il ruolo dell’intellettuale, organico e no, costituisce il motivo conduttore di tutta la problematica Gramsciana che, svuotata da questo protagonista quanto mai mutevole e infido, anche nella teoria “dello spirito di scissione” verrebbe a mancare del suo maggiore pilastro di sostegno e si ridurrebbe a semplice flatus vocis che è quanto dire a semplice esercitazione letteraria.

 

 

 

[4] Plekhanov, Les questions fundamentales du marxisme.

 

[6] Engels, Ludovico Feuerbach.

 

[7] Gramsci, II materialismo storico e la filosofia di B. Croce.

 

[8] Marx, Prefazione a: Per la critica dell’economica politica.

 

[9] Lenin, Materialismo e empiriocriticismo.

 

[10] Marx, Il Capitale, “Poscritto alla II Edizione”.

 

[11] Gramsci, Passato e Presente.

 

[12] Gramsci, Note sul Machiavelli.

 

[13] Gramsci, L’Ordine Nuovo, articolo apparso sul n. 21 dell’ottobre 1919.

 

[14] Lenin, Stato e Rivoluzione.

 

[15] Ci si riferisce alla nascita del Partito Comunista Internazionalista, sorto nel 1943 quale unica risposta alla degenerazione del PCI e alla Seconda Guerra Mondiale.

 

[16] Gramsci, Lettere dal Carcere.

 

[17] Gramsci, Il Risorgimento.

 

[18] Badaloni, Il marxismo di Gramsci, Einaudi, Torino 1975.

 

[19] Labriola, Del materialismo storico.

 

[20] Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966.

 

[21] Lenin, La Rivoluzione Proletaria e il rinnegato Kautsky.

 

[22] Marx-Engels, Opere Scelte, Editori Riuniti, Roma 1952.


Sul movimento dei consigli

 

Abbiamo già detto della frammentarietà dell’opera complessiva di Gramsci, ma dobbiamo riconoscere che essa è percorsa nel suo interno da un motivo cardine che sorregge il tutto in una visione d’insieme il cui filo conduttore è l’egemonia con tutte le sue implicazioni e sfaccettature contingenti e contraddittorie che perviene alla sua logica conclusione chiarendo, senza equivoci, la sua natura ideale che non si identifica né con la metodologia marxista né tanto meno con il fine rivoluzionario della classe. Ed è questo nodo centrale che deve essere sciolto una volta per sempre per dare a Gramsci, non mistificato, quel che in realtà è di Gramsci.

 

Per Gramsci il problema centrale è il modo di uscire dalla lunga serie delle scissioni originate dal moto molecolare di aggregazione e di disgregazione delle forze sociali, dal susseguirsi delle rivoluzioni passive e dalle guerre di posizione. È qui il centro focale di tutta la tematica Gramsciana che dovrebbe concludersi con l’egemonia delle forze sociali, la nuova classe fondamentale, dando il via ad un ordine nuovo. Quale e soprattutto come? C’è in Gramsci, costante, una irrequietezza spirituale, la mania di concludere, costantemente inappagata, e una inestinguibile ansia del potere: il problema dello Stato. Si era nel primo dopoguerra; la situazione portava in sé tutti i motivi di una crescente disgregazione; le istituzioni in parte spezzate e quelle rimaste in piedi non erano in grado di darsi un programma e tanto meno di metterlo in esecuzione; un cumulo di contraddizioni, di impotenza e di disperazioni in cui tutto e il contrario di tutto era possibile che accadesse.

 

Su tutto e su tutti incombeva il trauma della Rivoluzione d’Ottobre, enorme spinta psicologica positiva per chi aveva tutto da rivendicare e da conquistare, negativa e fatta di paura per chi temeva di perdere le proprie posizioni di privilegio.

 

I centri di produzione erano centri di scontri e di agitazioni disarticolate e permanenti: non mancavano iniziative sindacali ma nel contempo era in discussione la validità dello stesso sindacato come strumento di azione politico-sindacale: i vecchi partiti apparivano in stato di profondo disorientamento nel ritrovare la propria identità ideologica e politica. Come per il sindacato anche per i partiti tutto era messo in discussione con la tendenza prevalente a estremizzare sia a destra che a sinistra. Notevoli i conati per esperienze nuove anche nel grembo delle vecchie strutture dei partiti tradizionali, come il Partito Socialista Italiano nel quale trovarono terreno fertile per una distinta area d’azione i due poli di maggior spicco ideologico e di più matura e approfondita elaborazione dottrinaria del marxismo: il gruppo del Soviet della corrente della Sinistra italiana e il gruppo dell’Ordine Nuovo della corrente consigliarista. È questa l’esperienza dei Consigli che interessa il nostro esame.

 

Nel cuore della guerra, nell’ampiezza e profondità della prima guerra imperialista, i Consigli avevano dato la dimostrazione, soprattutto nell’esperienza aperta dalla rivoluzione d’Ottobre, d’essere gli organi del potere reale. L’organizzazione dei Consigli nel grande complesso industriale torinese ha ben altra origine e formazione, ha obbedito più ad una suggestione imitativa di una formula politica nuova che a spinte oggettive tradotte in termini perentori d’azione rivoluzionaria che non si è verificata più per la insipienza degli organi dirigenti del partito socialista — che avrebbero dovuto capire la situazione e guidare le masse all’azione — che per l’immaturità delle condizioni obiettive. Sotto questo rapporto i Consigli dell’esperienza torinese, non saldati al moto rivoluzionario, non erano né potevano essere che organismi di un potere fittizio e delimitato nel tempo.

 

Il fatto della disponibilità delle Commissioni interne dei maggiori complessi industriali ad una politica antiriformista, e quindi già inclini ad accettare iniziative della sinistra, non è motivo sufficiente e tantomeno valido perché tali organismi, sorti in funzione sindacale, si trasformassero in organismi del potere operaio, quali sono i Consigli, senza che questo potere esistesse né in potenza né di fatto.

 

All’atto rivoluzionario non si perviene con atti notarili del genere che segnano, semmai, un banale passaggio da una ragione sociale ad un’altra, sempre nell’ambito sindacale, ma dal salire impetuoso dal basso di immense forze sociali, coagulo di sofferenze immani di sfruttati, di potenza distruttiva, di rabbia troppo a lungo repressa, persino di odio con la volontà, precisa e irrimandabile, di spezzare una volta per tutte le strutture di una classe corrotta, quella capitalistica, perché storicamente finita.

 

Prefigurare la città futura e operare su questo piano di irrealtà non rientra nella logica del socialismo né in sede di dottrina e tantomeno in sede della pratica politica; sarebbe come riproporre un ritorno al socialismo utopistico nel momento stesso in cui il proletariato rivoluzionario sta vivendo la conferma storica della verità effettuale del socialismo scientifico. Non deve destare meraviglia se dopo ogni sconfitta nel conflitto di classe, con un proletariato prostrato e incapace d’azione propria di difesa e di offesa nei confronti del nemico di classe, si dia spazio all’azione fantastica, alla fantapolitica dei sognatori, degli acchiappanuvole anche se, in buona parte, in perfetta buona fede. È la inevitabile e quanto mai pericolosa epoca delle inversioni di tendenze improvvise e mai giustificate, dei contorcimenti strani e dei crolli paurosi; vi predomina costante un ibrido nichilismo fatto ora di distruzioni e ora di patologiche mitiche costruzioni che durano lo spazio di un mattino.

 

Nella prefigurazione della città futura Gramsci ha dato il meglio della sua opera di studioso e di politico, ma ha anche dato l’avvio a forme devianti a volte dalle sue stesse premesse, predominanti oggi in quello che fu anche il suo e nostro partito.

 

L’ottimismo della volontà”, aforisma derivato dalla filosofia del neospiritualismo francese, egli deve averlo concepito dopo un esame introspettivo della sua stessa esperienza che si conclude nell’arco di tempo che va dal ‘19 al ‘26, cioè dall’epoca dei Consigli alla promulgazione delle leggi eccezionali, che relega il partito e la sua direzione nelle galere e nei campi di concentramento o all’espatrio clandestino da cui prende inizio il secondo periodo di storia a cui si legherà, completandolo, l’altro aforisma più realistico e dolorosamente vissuto, quello del “pessimismo della intelligenza.

 

Puntualizziamo i tratti di questa volontà protesa a realizzarsi non sui dati obiettivi d’un dato momento della crisi della società capitalista ma sotto la spinta emotiva quale può essere espressa da un certo grado di ottimismo; volontà e ottimismo riecheggiano nelle pagine dell’Ordine Nuovo; argomento di fondo: i Consigli, come cellule viventi d’una nuova società. Sentiamo, come è nostro metodo interpretativo, lo stesso Gramsci:

 

La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico dell’attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione […] sua ragion d’essere è nel lavoro, è nella produzione industriale in un fatto cioè permanente e non già nel salario, nella divisione delle classi, in un fatto cioè transitorio e che appunto, si vuole superare […].
Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti all’organizzazione dello Stato proletario sono inerenti all’organizzazione del Consiglio […].
La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppa nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrificio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà […].
L’esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia […].
L’organizzazione per fabbrica compone la classe (tutta la classe) di un’unità omogenea e coesa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione e lo domina per impadronirsene definitivamente. Nell’organizzazione per fabbrica si incarna dunque la dittatura proletaria, lo Stato comunista che distrugge il dominio di classe nelle superstrutture politiche e nei suoi ingranaggi generali. [13]

 

L’esperienza, più teorica che pratica, dei Consigli, verrà affossata ufficialmente da Gramsci al convegno della frazione comunista di Imola (1920) e non se ne parlerà più nei termini ipotizzati dagli ordinovisti, come organi del potere proletario; spetterà ai futuri epigoni, i manovali della degradazione del partito nato a Livorno, di abbassare ancor più il ruolo dei Consigli riducendolo a strumento permanente della politica sindacale che, per sua natura, non va oltre la pratica del rivendicazionismo, obiettivamente corporativo, al di fuori d’ogni pratica e prospettiva rivoluzionaria.

 

AI culmine della crisi che si avrà con l’occupazione delle fabbriche, il proletariato industriale non è ancora la forza egemone ma ancora forza soggetta, se non uscirà dalle fabbriche occupate per attaccare frontalmente lo Stato e colpire così nel cuore il capitalismo. Il fatto che la Fiat sia occupata da maestranze che lavorano non si sa per chi e per che cosa e la facile soddisfazione di sapere che un bravo compagno, il metallurgico Parodi, siede sulla poltrona di Agnelli, non assicurano davvero dignità alla funzione egemone del proletariato industriale quando lo Stato mantiene comunque intatte le sue strutture e l’industriale Agnelli è sempre padrone della Fiat. E gli avvenimenti di questo periodo storico hanno dato ragione alla linea della Sinistra italiana che per bocca di Bordiga affermava che il nodo da sciogliere non era quello di occupare la fabbrica per rimanervi prigionieri se non si conquistano e non si spezzano le strutture dello Stato.

 

Gramsci non riteneva che tale ruolo potesse essere assegnato al PSI ma non poneva, come prospettiva immediata, la necessità del partito rivoluzionario; lui che sentiva tutta l’urgenza di un organo di guida alle spinte molteplici, contraddittorie e in parte irrazionali che salivano dal basso, affidava ai consigli, ideologicamente e politicamente immaturi con tutte le influenze negative e inceppanti dello spirito di categoria a sfondo corporativo, il compito immane di portare a compimento l’eversione rivoluzionaria che non è solo atto di violenza, ma è costruzione di una nuova società, e tutto questo in una sola città, sia pure industriale come Torino.

 

La sconfitta operaia dell’occupazione delle fabbriche chiude di fatto e miseramente l’esperienza dei Consigli. Ed è il fascismo.

 

Sarebbe impensabile una tale sequenza di errori di impostazione tattica e di strategia se il tutto non fosse sorretto da una idea madre, costante, che in Gramsci assume forma ossessiva allorché considera i Consigli come la prefigurazione dell’egemonia della classe consolidantesi sulle strutture stesse degli organi istituzionali dello Stato capitalista. Il progressivo e il regressivo coesistono e concrescono nello Stato come due momenti della stessa realtà. In questa vicenda di crescita e di decrescita i riflessi sono visibili nella maggiore o minore influenza e determinazione che verrà esercitata sugli organi dello Stato, palestra materiale del conflitto tra le forze egemoni della storia.

 

Nasce da qui il problema del come Gramsci considerava lo Stato.

 

Funambolismo ideologico

 

Anche la constatazione che stiamo per formulare sembra esprimere una strana contraddizione che è solo apparente: il marxismo, come dottrina, è esigenza universalmente sentita e un inevitabile punto di approdo di tutta la cultura filosofica e politica del nostro tempo; tuttavia, mai come ora, esso è stato sottoposto, anche nella formulazione del linguaggio, alle interpretazioni più arbitrarie e accomodanti e ne è venuto fuori un marxismo di maniera, buono cioè a tutti gli usi anche i più illeciti e aberranti.

 

Se da un lato tutto ciò si spiega con certe esigenze di basso mercantilismo politico, dall’altro serve come misura di un certo livello morale e della degradazione a cui è stato piegato il ruolo della cultura.

 

E se la constatazione è ovvia se riferita all’intelligenza borghese democratica, non dovrebbe esserlo per chi, come i teorizzanti del PCI, afferma a destra e a manca di attingere al marxismo rivoluzionario come a fonte ideale nella elaborazione della propria ideologia e nella definizione della propria condotta politica.

 

Nella storia, quella vera, di questi cinquant’anni dell’Unità, questa appare come un arco teso a ritroso verso ideologie che riportano al premarxismo, al superamento d’ogni tematica marxista per un sempre più vasto inserimento del proletariato nel dispositivo capitalista come la marciante punta avanzata della spinta progressista del composito fronte borghese. È quanto sta, infatti, accadendo, in modo più o meno palese, sotto i nostri occhi. Bisogna proprio riconoscere che anche la via percorsa dall’opportunismo ha obbedito alle esigenze tattiche del progressismo.

 

Ricordiamone le tappe più significative.

 

L’onore di aver dato l’avvio spetta indiscutibilmente a Gramsci che già nella complessità e vastità della sua preparazione filosofica maturata nel clima suggestivo e corruttore del neo spiritualismo francese dei Bergson, dei Sorel e di quello italiano dei Croce, portava questa predisposizione e inclinazione intellettuale ai valori della contingenza, al senso del concreto e al gioco alterno della sperimentazione anche se non sempre aderenti ai veri, reali interessi del proletariato, quello, si intende, dei grandi centri come Torino, dove erano vive e operanti le punte avanzate del moderno capitalismo.

 

Chi ha avuto modo di conoscere Gramsci nel vivo della sua personalità intellettuale e umana, sa quanto del suo mondo, ch’egli credeva saldamente ancorato nel cuore delle masse operaie nella fabbrica, fosse vissuto invece fantasticamente, per quella sua facoltà di soggettivizzare tutto, le sue idee, i suoi sentimenti, le stesse vicende della lotta operaia e della politica militante.

 

Chi non ha afferrato questo lato della personalità intellettuale e politica di Gramsci non può aver capito l’essenza dell’“ordinovismo” nei pochi lati positivi della sua breve esperienza, ma soprattutto nei suoi lati negativi lasciati a sedimentare, purtroppo, nel folto stuolo degli epigoni.

 

Ed è proprio per questa tendenza che era portato a pensare e a operare sotto la spinta di una volontà realizzatrice ad ogni costo; giovanissimo, affidava un potere quasi taumaturgico e in ogni caso determinante alla teoria e alla pratica dei “consigli”; fatto più adulto e passato alla direzione del Partito Comunista, considerava la tattica dell’inserimento nella lotta politica come un tuffarsi nella realtà quotidiana per trarre da questa il materiale umano da convogliare nella linea politica del partito e le suggestioni che avrebbero a loro volta influenzato il dato soggettivo della stessa azione politica.

 

Tali premesse teoriche, a cui Gramsci faceva seguire iniziative anche sul piano organizzativo, non si allacciavano in nessun modo con una visione dialettica del conflitto delle classi, con la legge, cioè, della determinazione che affida al sostrato economico una funzione preminente negli accadimenti della sovrastruttura, il ruolo della volontà umana determinato anch’esso e a sua volta determinante nel suo ritorno sulla base della stessa determinazione; in una parola l’essenziale della tematica marxista gli era allora quasi del tutto estranea se non ostile.

 

L’esperienza torinese dei Consigli di fabbrica porta i segni evidenti di questa ideologia improntata a intuizionismo mistico, ad acceso volontarismo “creatore” più che alle ferree leggi del materialismo dialettico del marxismo.

 

L’eclettismo — afferma Lenin — è sostituito alla dialettica; nei confronti del marxismo questa è la cosa più consueta, più frequente nella letteratura socialdemocratica ufficiale dei nostri giorni. Questa sostituzione non è certo una novità; si poté osservarla persino nella storia della filosofia greca classica. Nella falsificazione opportunista del marxismo, la falsificazione eclettica della dialettica inganna con più facilità le masse, dà loro un’apparente soddisfazione, finge di tener conto di tutti gli aspetti del processo, di tutte le tendenze dello sviluppo e di tutte le influenze contraddittorie, ecc; ma in realtà non dà alcuna nozione completa e rivoluzionaria dello sviluppo della società. [14]

 

Senza nessi ideali con la tradizione socialista delle masse prese nel loro insieme di classe, senza una saldatura con le forze del partito socialista, le sole che allora rappresentavano anche se in modo manchevole le aspirazioni e la forza organizzata dei lavoratori italiani, l’“ordinovismo” doveva precludersi ogni possibilità di seria guida rivoluzionaria e concludersi come episodico tentativo ideologico-politico fecondo solo per i futuri revisionisti di destra del movimento operaio.

 

Con questi precedenti e data la sua notevole statura politica, Gramsci doveva apparire ai dirigenti bolscevichi del periodo post-leninista, l’uomo a cui affidare proficuamente il compito di dirigere il partito nella fase, assai complessa e delicata, della “bolscevizzazione” che avrebbe dovuto adeguare, anche strutturalmente, il partito nato a Livorno nel solco della tradizione della Sinistra italiana alle mutate esigenze dello Stato russo, imposte dal nuovo corso della sua economia e della sua politica. Bolscevizzare il partito voleva significare frazionarlo, spezzare la sintesi delle sue varie componenti sociali e di categorie, spersonalizzarlo e disperderlo nelle fabbriche, sui posti di lavoro con l’inconfessato obiettivo di dominarlo dall’alto con una salda rete funzionaristica e spegnere in esso ogni capacità di visione critica, d’iniziativa e di spinta di classe.

 

Spettava a Togliatti, numero uno della mala compagnia degli epigoni, di portare alle estreme conseguenze, deformandole il più delle volte, certe formulazioni teoriche che la sorte non ha consentito a Gramsci di vedere tradotte in prassi politica e organizzativa.

 

È del periodo di Gramsci, è forma embrionale del suo “blocco storico” la politica del fronte-unico antifascista, ma Togliatti si servirà poi dell’apporto quantitativo dato da questa politica antifascista per farne un suo strumento di lotta incanalandolo sul piano della seconda guerra imperialista, della guerra di liberazione nazionale e del moto partigiano, chiamando tutto ciò guerra popolare rivoluzionaria per il compimento del secondo Risorgimento italiano.

 

Ma il capolavoro tattico e strategico di Togliatti sarebbe stato il secondo e definitivo esperimento del Gramsciano “blocco storico”, quello del potere, con la scalata al governo della Repubblica da parte della variopinta sinistra parlamentare.

 

Che tale piano riesca o no, non avrà in sé e per sé gran peso, ma potrà produrre un fatto positivo: la fine cioè del partito di Togliatti come partito “per eccellenza” della classe operaia e d’ogni richiamo propagandistico, che possa ancora avere presa, alla ideologia di classe, al marxismo rivoluzionario e alla dittatura del proletariato. Questo futuro “partito nuovo”, sarà il partito che esprimerà più concretamente gli interessi del neocapitalismo e del capitalismo di stato e come tale sarà al governo in rappresentanza di questo settore avanzato del capitalismo monopolistico e della sua matrice sociale che è la borghesia progressista.

 

Se non altro, la tendenza bloccarda di Gramsci, se trovava una sua validità storica in questo suo riallacciarsi allo spirito federativo così vivo e ricco di fermento nelle tendenze politiche risorgimentali e nello spirito regionalistico della nostra gente, non lasciava certo supporre la concezione del partito unico operaio come federazione dei partiti comprendente la democrazia laica e clericale.

 

Ricordiamo a questo proposito l’appassionata insistenza con cui Gramsci considerava il fallimento della borghesia e poneva come non dilazionabile la necessità storica che il suo ruolo di guida passasse al proletariato, ciò che è in evidente contrasto con l’imparaticcio teorico e l’estrema banalità con cui Togliatti ieri e Berlinguer ed epigoni oggi, questa stessa borghesia rivalorizzano in ogni loro atto. Un partito così variamente composito sarà senza principi, un abborracciamento di ideologie contrastanti, cucite insieme con il filo nero dell’opportunismo e del miraggio del potere.

 

Bisogna riconoscere che il cretinismo parlamentare in un trentennio di esperienza democratica è divenuto davvero adulto se si considera forza capace di far da trincea avanzata contro il temuto assalto del proletariato rivoluzionario sotto la guida del partito di Lenin, il solo che turba la coscienza degli opportunisti e pone nel dispregio che meritano i valori della democrazia e delle istituzioni parlamentari che costituiscono per loro i pilastri imperituri della civiltà occidentale borghese e cristiana.

 

Egemonia e democrazia

 

Tra i tanti significati di democrazia, quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di “egemonia”. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui lo sviluppo dell’economia e quindi la legislazione, che esprime tale sviluppo, favorisce il passaggio (molecolare) dai gruppi diretti al gruppo dirigente. [12]

 

Tra i non pochi frammenti e appunti sul concetto dell’egemonia, la cui frequenza e insistenza ricorrenti nell’opera stanno a dimostrare come l’argomento fosse al centro dell’attenzione dell’autore e ne condizionasse in parte la formulazione teorica e la decisione pratica, in evidente contrasto con il marxismo della sua militanza politica, abbiamo scelto Egemonia e democrazia che riteniamo più significativo e più completo, pur nella sua schematicità.

 

Forse il maggior impegno di elaborazione teorica di tutta l’opera Gramsciana, il punto focale della sua dottrina va ricercato in questo tentativo di approfondimento critico, che è poi l’egemonia, quel turbinoso processo molecolare che rende possibile il passaggio da gruppi o classi diretti a gruppi o classi dirigenti.

 

È proprio in questo nucleo di pensiero che prende via via corpo l’idea della “egemonia” che finisce per trovare la sua vera, anche se mai completa, collocazione prima nei Consigli come prefigurazione della futura società comunista, quindi nel partito concepito su base cellulare di fabbrica, e infine nel ruolo “prioritario” affidato agli intellettuali e in genere alle classi medie nella visione del blocco storico.

 

Incominciamo con i Consigli. Per la verità ci siamo più volte, e per ragioni polemiche, riferiti a questi punti nodali della dottrina dei Consigli soprattutto per ciò che concerne la tesi cara a Gramsci del carattere di prefigurazione della società comunista che si voleva attribuire a questo tipo di organizzazione già inserito nel contesto delle strutture della vecchia società che si voleva distruggere.

 

I termini della nostra polemica con Gramsci allora sottintendevano l’interpretazione che del ruolo dei Consigli sarebbe stata data dall’opportunismo: i consigli (soviet) sono sorti e sorgono storicamente come organi del potere operaio in perfetta sintonia col partito rivoluzionario, nascono quindi da una spaccatura rivoluzionaria e mai da un processo riformista di riconciliazione tra le classi. È proprio per questo netto spartiacque teorico posto dalla nostra lontana disputa, quanto mai viva e attuale, che ogni rilettura di Gramsci deve essere fatta criticamente, alla luce cioè di quanto viene fatto oggi dai tardi epigoni del Gramscismo in nome del suo insegnamento.

 

Il Consiglio di fabbrica — scrive Gramsci — è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti alla organizzazione dello Stato proletario sono inerenti alla organizzazione del Consiglio. Nell’uno e nell’altro il concetto di cittadino decade e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente, sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il più ignorante e il più arretrato degli operai, anche il più vanitoso e il più “civile” degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità nelle esperienze dell’organizzazione di fabbrica: tutti finiscono per acquistare una coscienza comunista per comprendere il gran passo in avanti che l’economia comunista rappresenta sull’economia capitalista. [13]

 

Par di leggere un brano preso di sana pianta da una pagina di un qualsiasi scrittore del periodo del socialismo utopistico tanto la crescita d’una coscienza del gruppo soggetto è intrisa di “collaborazione per produrre bene” e “utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza”, e il passaggio molecolare al gruppo dirigente è tanto palesemente indolore.

 

Gramsci conclude il suo pensiero in questi termini:

 

II Consiglio è il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dalla esperienza viva e feconda della comunità di lavoro. La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppava nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrifizio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia […].
L’esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia. [13]

 

Trascurando in questa sede ciò che invece Gramsci non trascurava affatto, cioè la ricerca dell’effetto che chi scrive cerca di ottenere dall’uso o abuso di un certo mezzo espressivo, quel che colpisce in questa nostra rilettura è l’impressionante assenza, nella funzione dei Consigli, d’una pur minima comprensione dei termini di una contrapposizione di classe che nel biennio 1919-20 aveva raggiunto i suoi punti limite con la Rivoluzione d’Ottobre in Russia e con la sconfitta del moto spartachista in Germania.

 

Ma vediamo più da vicino il problema dei Consigli nella esperienza personale di Gramsci. E a Torino che egli ne vive il suo maggiore episodio teorico-pratico: una rapida fioritura di Consigli avutasi nel settore più avanzato dell’industria metallurgica, sotto la spinta stimolante degli avvenimenti della rivoluzione russa, fa da supporto pratico-organizzativo al gruppo di Ordine Nuovo che ne diviene il centro di elaborazione teorica.

 

I Consigli dell’esperienza torinese, più che di una situazione nazionale dove era inesistente una fase d’azione immediatamente rivoluzionaria, erano il riflesso di una situazione internazionale che manteneva tuttora delle possibilità di sviluppi in senso rivoluzionario, era quindi inevitabile che tutta l’impostazione inizialmente data ai Consigli, notevole per apporto intellettuale e per un certo malcelato afflato mistico più che per ponderata analisi dei dati obiettivi, dovesse finire con giravolte teorico-tattiche di non facile giustificazione.

 

Nella situazione italiana, pur non essendo all’ordine del giorno una prospettiva immediatamente rivoluzionaria, nel suo complesso era tuttavia viva una fase montante nella quale i Consigli potevano trovare ossigeno sufficiente per vivere nella ipotesi di una possibile e non lontana prospettiva di soluzione rivoluzionaria. Ma avevano i Consigli una struttura, una organizzazione nazionale, una rete efficiente di quadri intermedi e soprattutto una raggiunta omogeneità organica tra teoria e pratica? L’originalità dell’Ordine Nuovo e della prima esperienza dei Consigli è stata quella torinese e non ha oltrepassato nella pratica, triste esperienza italiana, i limiti della provincia.

 

Nella ricerca, tra il 1917 e il 1919, di una egemonia valida alle esigenze della situazione ancora piena di incognite, Gramsci si è dovuto accontentare delle false egemonie o delle egemonie imperfette.

 

L’errore di fondo di tutta la tematica Gramsciana va individuato in quella sua pretesa, del tutto idealistica, di attribuire agli organi di fabbrica, per loro natura contingenti, mutevoli e ancorati ad interessi particolari, funzioni permanenti e statiche che sono proprie del partito di classe.

 

L’organizzazione per fabbrica — scrive Gramsci, nella chiusa dello stesso articolo — compone la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione e lo domina per impadronirsene definitivamente. [13]

 

Che l’organizzazione dei Consigli non sia riuscita negli anni dell’esperienza ordinovista (1917-20) a comporre la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa, lo dimostra il fatto della sua organica incapacità a recepire una funzione di egemonia politica pur nei confronti di un partito come quello socialista non certo concorrenziale sul piano della lotta rivoluzionaria; e infine, come ipotetici organi del potere proletario, i Consigli, nati asfittici, hanno potuto avere una fine onorevole al Convegno di Imola (1920) che, oltre a gettare le basi del partito di classe, è stato anche la naturale sede di approdo e di autoliquidazione delle due maggiori egemonie imperfette esistenti nello schieramento politico italiano, divenuto ormai adulto nello spazio vitale del Partito Socialista: quella dell’Ordine Nuovo, con la fine dei Consigli e quella del Soviet, con la fine dell’astensionismo.

 

E nel partito che si formerà a Livorno Gramsci porterà, era inevitabile che ciò avvenisse, la sua forma mentis consigliarista, la concezione cioè di un partito che basa la sua egemonia su di una struttura cellulare di fabbrica.

 

Subito si confonderà, ma senza compromettersi troppo, con la sinistra tradizionale del partito per attendere, dal conflitto latente tra alcune posizioni fondamentali tipiche della “Sinistra italiana” e le esigenze russe del centro della Internazionale, la messa in moto di un processo interno di spostamento di forze (il passaggio molecolare) che avrebbe favorito la formazione di una nuova direzione.

 

Lo scontro avverrà sul falso e opportunistico problema della scissione (Comitato d’Intesa, 1925) ma all’ordine del giorno del vasto e a volte violento dibattito erano in realtà la politica del fronte unico e la trasformazione della organizzazione del partito dalla sua base territoriale a quella cellulare di fabbrica.

 

Portare la caratteristica di fabbrica propria dei Consigli nelle strutture del partito, significava per la sinistra contaminarne ideologicamente la natura di organismo unificante le varie e a volte contraddittorie istanze che dal seno della classe salgono fino al partito in un processo di lenta decantazione socio-politica, dalle categorie alla classe, sotto il pungolo costante della vasta gamma delle lotte rivendicazioniste tra capitale e lavoro di cui veramente si sostanzia una propedeutica autenticamente rivoluzionaria.

 

Nella fabbrica dominano gli interessi che le sono propri e che per loro natura non vanno oltre la rivendicazione corporativa e a questa piegano l’attenzione, i desideri, il comportamento degli operai che vi lavorano.

 

Portare il partito nella fabbrica significava per noi spezzare il nesso dialettico che deve sempre intercorrere tra partito e classe.

 

Si voleva dare il valore di scoperta, combattere ogni tendenza corporativa portando il partito nelle fabbriche e si è finito poi con l’immiserire il partito costringendolo sul binario opposto a portare avanti cioè una politica corporativa (comitati di gestione, ecc).

 

La nuova direzione improntata alla linea gramsciana che guiderà il partito fino alle leggi eccezionali (novembre 1926) sarà ancora un pallido esempio di egemonia imperfetta, data l’incapacità del vertice di riuscire ad allargare la sua base di influenza potenziando l’apparato dei funzionari ma perdendo sempre più credito dalla parte della reale maggioranza del partito che, ad onta delle manovre condotte senza scrupoli e delle protezioni internazionali sfruttate da buoni mercanti della politica, era tuttora sentimentalmente sul terreno della sinistra.

 

Tuttavia va riconosciuto a Gramsci la capacità di avere seguito in questo arrembaggio al potere, molto da vicino e con acuto e spregiudicato senso politico, la fase del processo molecolare interno di cui ci stiamo occupando, dimostrando nella pratica, anche col perfido ricatto amministrativo, di sapere attingere più ai metodi appresi dalle pagine di Machiavelli che da quelle di Marx e Lenin.

 

Del resto non ebbe titubanza nel riconoscerlo rispondendo ad una nostra amara constatazione fattagli in proposito.

 

Nella storia del movimento operaio si tornerà a parlare dei Consigli ma in modo più dimesso e in termini meno esaltanti, svuotati del contenuto originario che Gramsci attribuiva loro e che di fatto non avevano mai avuto, quello cioè di…

 

essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia. [13]

 

Questa egemonia i Consigli non l’hanno mai raggiunta né quando Gramsci scriveva queste righe né tanto meno, come organi del potere rivoluzionario, ridotti ormai dagli epigoni al rango di organi permanenti del sindacato di fabbrica, una specie di sostituto, forse più rappresentativo, delle vecchie commissioni interne. Nessuno nega che non si sia verificata con ciò una crescita di potere egemonico, ma a favore dell’apparato sindacale, in nessun caso dei delegati al Consiglio anche se questi sono stati eletti dalla base con tutto il rispetto delle regole democratiche.

 

Si tratta comunque di una egemonia sviluppatasi su un piano di gerarchia sindacale che solo il fervore di certi epigoni e di certo pressapochismo culturale, oggi in auge, possono considerare nel quadro dell’originaria concezione Gramsciana.

 

Non vorremmo che si pensasse, con questo nostro richiamo, alle esperienze più recenti, ad un nostro tentativo di servircene come dimostrazione pratica di errori che troverebbero la loro matrice ideale nel pensiero di Gramsci, o più esattamente nella sua frammentarietà; ma è nostra cura mettere in evidenza questa fase dei Consigli che precede la conquista del potere, che sta tutta entro la dinamica del conflitto di classe e che vede il proletariato e i suoi organi di lotta, compresi i Consigli, in condizione, per usare la terminologia di Gramsci, di gruppo diretto (noi diremmo di classe soggetta e subalterna). In questo passaggio molecolare, più o meno celebre, tipico del periodo di crisi profonda in cui sorgono i Consigli, ipotizzare un loro processo di sviluppo organico sul tronco marcio del sistema capitalista, che la rivoluzione dovrà distruggere, è una formulazione per lo meno mitizzante in quanto non trova alcun legame con la realtà del contesto socio-economico. Due momenti diversi per tattica e per strategia che non possono essere confusi.

 

A proposito di metodologia ci piace ricordare ciò che scrive Lenin di Marx:

 

In Marx non vi è traccia del tentativo di inventare di sana pianta delle utopie, di fare vane congetture su quel che non si può sapere. Marx pone la questione del comunismo come un naturalista porrebbe, per esempio, la questione dell’evoluzione di una nuova specie biologica, una volta conosciuta la sua origine e la linea precisa della sua evoluzione. [14]

 

Consigli e controllo operaio

 

Era inevitabile che il revisionismo più deteriore del secondo dopoguerra si impossessasse e facesse sua l’arma dei Consigli rifacendosi, si capisce, all’ordinovismo del primo dopoguerra secondo l’elaborazione teorica e l’impostazione politica datane da Gramsci. Tuttavia il vizio di origine, quello di considerare la fabbrica come la “cellula d’un organismo”, nella quale “l’economia e la politica confluiscono”, nella quale “l’esercizio della sovranità è tutt’uno con l’atto della produzione” e nella quale “si realizzano embrionalmente tutti i principi che informeranno la costituzione dello stato dei consigli”, è presente in questa riedizione dei consigli e consegue, come in Gramsci, ad una sottovalutazione se non addirittura ripulsa della funzione storica del partito di classe. Ma con questa fondamentale differenza: la strutturazione dei Consigli, il loro inserimento nel processo produttivo, la loro abilitazione tecnica, la loro stessa politica produttivistica erano visti da Gramsci nella fase del primo Ordine Nuovo (1919/20) in funzione della conquista del potere, come momento iniziale e formativo dell’esercizio della dittatura di classe del proletariato, mentre per i revisionisti tutto ciò è visto come naturale, pacifico, democratico inserimento delle forze del lavoro nello Stato; il problema del potere si concretizzerebbe così in una crescente abilitazione di queste forze alla gestione del potere in collaborazione con quelle storiche del capitalismo che di fatto detengono questo potere in posizione di forza egemonica e intendono sì accettare quelle collaborazioni che servono in definitiva a conservare e rafforzare il potere economico esistente, ma non intendono spartirlo con chi mirasse ad incidere sui diritti acquisiti d’una egemonia di classe. Sotto questo rapporto si giudichi oggi la politica del preteso controllo operaio tentata, con i risultati che tutti conoscono, attraverso i comitati di gestione e le teoriche postulazioni della cogestione, che è servita a spingere gli operai a produrre il maggiore sforzo produttivo nella fase più delicata e difficile del riassestamento del potenziale economico capitalista. Di fatto i comitati sono finiti nel ridicolo, spazzati via dal processo produttivo nel momento in cui i padroni hanno ritenuto che la loro opera di collaborazione era stata portata a compimento e potevano perciò sentirsi di nuovo veramente padroni.

 

È interessante seguire il tentativo di teorizzare il problema del controllo operaio che

 

deve esercitarsi attraverso istituti sorti nella sfera economica, laddove è la fonte reale del potere […] La sua funzione dovrebbe consistere nel contrapporre alla democrazia aziendale, di marca padronale, la rivendicazione della democrazia operaia [per] spostare sempre più il centro della lotta sul terreno del potere reale e delegante, facendo maturare e avanzare gli istituti nati dal basso, la cui natura sia già affermazione del socialismo.

 

La lotta del proletariato servirebbe così…

 

ad acquistare giorno per giorno nuove quote del potere, nel senso di contrapporre al potere borghese la richiesta, l’affermazione e le forme di un potere nuovo che venga direttamente e senza deleghe dal basso.

 

La derivazione dal pensiero di Gramsci è evidentissima in questa impostazione dovuta ad alcuni giovani dell’apparato del PSI (“Sette tesi sulla questione del controllo operaio”, Mondo Operaio n. 2, 1958). Ma più evidente è il distacco che separa questo schema, intellettualistico e dilettantistico insieme, dalla visione finalistica e di superamento rivoluzionario del primo Gramsci.

 

In questi giovani è vivo l’impegno idealistico che li porta a concepire la questione del controllo operaio in astratto, senza tener conto dell’esperienza che essi stessi hanno fatto, negativamente, nella milizia attiva delle formazioni politiche che si richiamano al proletariato. Essi concepiscono infatti fabbriche ideali e ideali legami organizzativi di fabbriche sul piano nazionale; concepiscono istituti a cui affidano il compito di scavare in profondità nel terreno economico-sociale del capitalismo, azione che dovrebbe comportare una evidente lacerazione nel suo diritto di proprietà, e postulano nuovi diritti basati su conquiste operaie che aumenterebbero di potenza materiale in misura proporzionale all’aumento del grado di conoscenze strumentali; prospettano insomma una realtà capitalistica d’interessi economici ben determinati che si fa realtà socialista per virtù insite al processo produttivo, specie di slancio perenne di vita che si articolerebbe per di dentro dalla singola fabbrica al complesso delle fabbriche su su fino al vertice dello stato; molecola di natura socialista della fabbrica dilatata fino a divenire realtà socialista nello stato. Avviene così che:

 

il passaggio pacifico al socialismo invece che verificarsi attraverso il parlamento, va verificandosi ogni giorno, in questo maturare della classe [senza scosse violente, senza rivoluzione, insomma — nda] attraverso l’opera di questi nuovi istituti di fabbrica.

 

Par quasi che questi compagni non siano mai entrati in una fabbrica e non conoscano, anche per sentito dire, in quale clima di costrizione morale e di paura gli operai siano oggi costretti a vivere. Non è tanto il ricorso poliziesco al “reparto confino” istituito nei grandi complessi industriali, che esprime l’animus del capitalismo, quanto l’obiettiva possibilità di cui questo liberamente dispone di cambiare, quando e come vuole, la stessa natura sociale delle proprie maestranze, mettendo al posto dell’operaio qualificato di origine e tradizione proletaria, lavoratori reclutati nelle tante zone depresse dell’economia italiana, quando non lavoratori più adatti a spezzare gli scioperi che a far funzionare una macchina.

 

Va da sé che in questa concezione — in cui un progressismo indefinito delle conquiste operaie si alterna ad una propedeutica riformista della lotta e tutte e due si completano su di un piano nel quale dialettica, metodologia marxista e visione catastrofica del salto rivoluzionario sono del tutto banditi — il partito non poteva ridursi che a semplice…

 

funzione di strumento della formazione politica del movimento di classe (strumento cioè, non di una guida paternalistica, dall’alto, ma di sollecitazione e di sostegno delle organizzazioni nelle quali si articola l’unità di classe).

 

Ma le teorie che non coincidono con la realtà sono teorie “fasulle”. E riportiamoci alla realtà.

 

Anche là dove i Consigli e il controllo operaio hanno avuto recenti realizzazioni, hanno vissuto giornate di potenza e di gloria nel clima arroventato dell’insurrezione come in Ungheria e in Polonia, o vengono stroncati dal ritorno offensivo del regime contro cui questi organismi erano sorti e insorti (Ungheria) oppure vengono accortamente svuotati di ogni contenuto classista e rivoluzionario e piegati alle esigenze del regime imperante (come sarebbe avvenuto in Ungheria, se Imre Nagy avesse avuto la possibilità materiale di instaurare il suo regime così come in Polonia ha operato Gomulka, così come in Jugoslavia ha operato Tito).

 

Dunque anche il controllo operaio esercitato dai Consigli o esplica il suo compito nel momento dell’azione rivoluzionaria in quanto arma di battaglia o si riduce ad un mezzo banalissimo di conciliazione per allestire la solita truffa riformista.

 

Mentre Gramsci aveva concepito questi organismi di fabbrica, a parte la critica da noi formulata alla loro impostazione teorica, nel quadro di una prospettiva rivoluzionaria, gli epigoni di Gramsci li hanno concepiti e li concepiscono tuttora nel quadro di una prospettiva riformista e dichiaratamente controrivoluzionaria.

 

Concludiamo il nostro esame affermando che i Consigli sono gli organi del potere e opereranno come tali quando la questione del potere proletario sarà posta all’ordine del giorno della storia.

 

Ma anche allora non potranno operare da soli, non diventeranno autosufficienti per virtù di nessuna costrizione teorica; non perverranno cioè agli obiettivi per cui sono sorti se non funzioneranno da canali vettori dell’ondata rivoluzionaria imbriglianti l’impeto disordinato e irrazionale delle grandi masse in movimento alle quali tuttavia viene a mancare la coscienza storica del fine e la concezione universale della rivoluzione che sono proprie del partito della classe operaia.

 

La rivoluzione dell’Ottobre russo fu possibile perché ebbe il partito bolscevico più i Consigli.

 

La rivoluzione dell’Ottobre ungherese è fallita perché ebbe i Consigli meno il partito bolscevico.

 

La crisi della IV Repubblica ha fatto riemergere De Gaulle perché il proletariato francese si è trovato davanti a questa svolta senza partito bolscevico e senza Consigli.

 

Correnti d’opinione e la nuova metafisica

 

Una corrente d’opinione che intenda rimanere tale, che volutamente eviti di legarsi ad una esperienza e neghi ogni partecipazione attiva e conseguente agli accadimenti di ordine economico, sociale e politico quali la storia va perennemente intessendo, potrà anche dar adito ad una problematica ingegnosa e forse interessante nel mondo della pura cultura ma è destinata a durare lo spazio d’un mattino e rimanere praticamente infeconda come sono risultate infeconde nella storia del pensiero anche le più ardite costruzioni metafisiche. E di metafisica è lecito parlare ogni qualvolta la trama d’una costruzione teorica non si intenda far coincidere con la trama delle vicende umane, quando cioè si ipotizza un mondo di idee astratte, geometricamente ordinate, una specie di Città del Sole con in più richiami, intelligentemente vagliati, ai classici del marxismo e una fitta, aggiornatissima scelta di dati statistici.

 

Vogliamo dire in sostanza che una corrente di opinione che si estranea per principio dal vivo degli accadimenti e non conferma la validità di ciò che afferma come dato teorico al fuoco delle lotte che caratterizzano il nostro tempo, si preclude ogni possibilità di trasformarsi in una minoranza operante, inserita concretamente nel solco degli avvenimenti, capace di sentirne le esigenze sul piano di classe e di tradurle in termini di lotta rivoluzionaria.

 

Una corrente di opinione così concepita e articolata, anche quando si richiama alla ortodossia marxista, non può essere considerata che “tendenzialmente” marxista perché svuota questa dottrina nel suo più alto contenuto, facendo della dialettica una semplice astrazione, un gioco di idee puramente formale e dimentica che nella mente degli uomini vivono riflesse tutte le contraddizioni che sono proprie della società organizzata sul modo di produzione capitalista.

 

Nei primi anni del secolo questa tendenza si materializzò nelle forme di un empirismo operaistico “schifato” della politica quietista e parlamentare dei partiti e finì per perdersi tra gli ingranaggi di un grigio corporativismo di categoria come avvenne per il sindacalismo barricadiero dei Corridoni e dei De Ambris condotto sul filo dell’anarchismo o per quello dei Labriola ed Enrico Leone, improntato ad un estremismo volontarista.

 

Più vicina a noi è significativa l’esperienza ordinovista dei Consigli di fabbrica, che ebbe il suo centro d’attrazione a Torino, più particolarmente nel complesso industriale Fiat, per quel tanto ch’essa elaborò in sede di dottrina e tentò sul piano organizzativo al di là e contro il Partito Socialista, che si riteneva strutturalmente vecchio e incapace di una iniziativa rivoluzionaria, nella illusione che non nei quadri di un partito e nella forma della sua organizzazione ma sul posto di lavoro e nel cuore delle masse industriali potessero autoformarsi la coscienza e le forze di una eversione rivoluzionaria congeniali al proletariato moderno.

 

L’errore commesso dall’ordinovismo consiste nell’aver voluto considerare sul piano d’una teoria generale ciò che era soltanto una esperienza di categoria e fare della fabbrica il microcosmo in cui si riflettesse tutto il complesso e contraddittorio moto della economia.

 

Muovendo dalla fabbrica — scriveva Gramsci — vista come unità, come atto creatore di un determinato prodotto, l’operaio assurge alla comprensione di sempre più vaste unità, fino alla nazione che è nel suo insieme un gigantesco apparato di produzione […].

 

Ma questo concrescere della coscienza operaia negli organi dello sviluppo strumentale del capitalismo serve più a legare strettamente l’operaio al processo della produzione che a favorirne la liberazione. Gramsci vedeva infatti l’unità laddove avrebbe dovuto vedere il punto nevralgico del contrasto di classe e trovare lì le ragioni obiettive per le quali le forze del lavoro alienato poste contro quelle che impongono tale alienazione tendono a negare e a rompere questa falsa unità. Era implicito l’invito agli operai da parte di questa corrente di considerare la fabbrica come se fosse casa loro. Su questo errore di prospettiva sarà poi orientata la politica socialcomunista della guerra di liberazione antifascista che costringerà le masse operaie a battersi per esercitare un controllo diretto sulla produzione (comitati di gestione) e, quel che è peggio, a difendere le fabbriche, le macchine e a ricostruire quelle distrutte dalla violenza della guerra.

 

Che poi l’ordinovismo si sia ridotto ad un semplice tentativo nel quadro di un insorgente neoidealismo allora di moda senza alcuna seria rilevanza sul piano di una nuova strategia proletaria, è materia che meriterebbe d’essere studiata al lume d’una più severa critica marxista.

 

E sintomatico comunque, e non farà meraviglia, che l’ordinovismo debba più tardi trovarsi a suo agio al vertice del Partito Comunista uscito dal Congresso di Livorno per servire da veicolo cosciente a quella bolscevizzazione che doveva aprire la fossa alla rivoluzione d’Ottobre e sbarrare la strada ad ogni seria ripresa di classe su scala internazionale. In posizione polemica con quella torinese dell’ordinovismo si situa l’esperienza realizzata attorno al Soviet di Napoli per la quale il toccasana infallibile risiedeva nell’astensionismo come reazione al parlamentarismo cafone, corrotto e corruttore che dominava la politica italiana e particolarmente quella meridionale.

 

Aver creduto nell’astensionismo come ad un correttivo di classe capace di preservare le masse operaie e il Partito Socialista da ogni contaminazione parlamentaristica, era quanto di più arbitrario, astratto e malinconicamente intellettualistico poteva capitare tra i piedi del proletariato italiano.

 

Si è trattato ancora una volta di ridurre un modesto e contingente, pur se necessario, momento di tattica, quello astensionista, a canone politico sempre vero e sempre valido, di costringerlo a camminare sulle malferme stampelle dell’idealismo, commettendo così un madornale e imperdonabile errore: quello di vedere i problemi del partito e della rivoluzione partendo dall’angusto angolo visuale dell’astensionismo e non inversamente.

 

Nell’ordinovismo come nell’astensionismo, per non riferirci che ad episodi di maggior peso, la politica di classe non è uscita dal gabinetto di analisi teorica e ognuna di queste esperienze, a modo suo, è servita in definitiva a ritardare il processo di formazione del partito che avrebbe dovuto operare in quella fase storica come l’indispensabile motore della rivoluzione socialista.

 

Da allora e per questi motivi, il corso del movimento operaio italiano è stato faticoso nel suo procedere, distorto e contraddittorio, fino a condurci alla presente, grave stagnazione. Un movimento politico di classe non sorge mai come semplice corrente di opinione ed è partito di classe non tanto per quel che pensa e dice di pensare ma per la dimostrata volontà e capacità di passare concretamente dalla teoria alla pratica riducendo l’enunciato teorico a termine d’azione di classe nei limiti obiettivi della sua realizzabilità.

 

Il marxismo, si sa, non è mai stato un corpo di dottrine di tipo illuministico, non ha mai preteso di impersonare l’assoluto vero e non si è mai attribuito carattere di indiscriminata universalità ma la sua interpretazione è strettamente legata alla contingenza e alla relatività, dialetticamente espresse, del momento capitalista.

 

C’è qualcosa di “necessitato”, di organico, di strutturalmente inevitabile e inconfondibile nell’atto del sorgere, quale che sia il momento della storia in cui si inserisce, di un movimento dal complesso della classe e che alla classe si richiami per averne fatte proprie le esigenze, i metodi e gli obiettivi.

 

A questo riguardo è particolarmente notevole e significativo un esame del nostro movimento [15], il solo che nelle tormentate e mutevoli vicende della politica italiana sia rimasto ancora, a volte con la forza della disperazione, alle ragioni storiche del proletariato e alla ideologia rivoluzionaria del marxismo.

 

È tanto più significativa questa constatazione quando si sa che tutto ciò avveniva in mezzo alla violenza della II Guerra Mondiale, a cui doveva poi far seguito l’attuale abbrutimento delle masse operaie operato dalla ideologia borghese della democrazia parlamentare cui si sono piegati i partiti ad origine cosiddetta operaia, i quali vorrebbero ora dar ad intendere alle masse che questa democrazia rappresenta una fase storicamente necessaria, sulla cui base il socialismo germoglierà spontaneamente come frutto maturo della più vigorosa e feconda pianta della libertà cresciuta sul terreno del capitalismo e concimata col sudore e col sangue del proletariato.

 

[4] Plekhanov, Les questions fundamentales du marxisme.

 

[6] Engels, Ludovico Feuerbach.

 

[7] Gramsci, II materialismo storico e la filosofia di B. Croce.

 

[8] Marx, Prefazione a: Per la critica dell’economica politica.

 

[9] Lenin, Materialismo e empiriocriticismo.

 

[10] Marx, Il Capitale, “Poscritto alla II Edizione”.

 

[11] Gramsci, Passato e Presente.

 

[12] Gramsci, Note sul Machiavelli.

 

[13] Gramsci, L’Ordine Nuovo, articolo apparso sul n. 21 dell’ottobre 1919.

 

[14] Lenin, Stato e Rivoluzione.

 

[15] Ci si riferisce alla nascita del Partito Comunista Internazionalista, sorto nel 1943 quale unica risposta alla degenerazione del PCI e alla Seconda Guerra Mondiale.

 

[16] Gramsci, Lettere dal Carcere.

 

[17] Gramsci, Il Risorgimento.

 

[18] Badaloni, Il marxismo di Gramsci, Einaudi, Torino 1975.

 

[19] Labriola, Del materialismo storico.

 

[20] Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966.

 

[21] Lenin, La Rivoluzione Proletaria e il rinnegato Kautsky.

 

[22] Marx-Engels, Opere Scelte, Editori Riuniti, Roma 1952.

 

Lo stato



Con l’esaurirsi del mito dei Consigli per l’intima e organica incapacità di irradiarsi su scala nazionale e limitatamente al settore industriale, il ruolo egemonico, così come concepito da Gramsci e dal gruppo ordinovista, si sposta nel partito attraverso un processo di formazione che Gramsci non ricerca nella storia del movimento operaio e nella tematica marxista, ma nell’intuizione non estatica, non lirica, non artistica ma soltanto politica attinta alle fonti del neoidealismo francese (Bergson).

 

L’intuizione politica non si esprime nell’artista ma nel “capo” e si deve intendere per “intuizioni” non la “conoscenza degli individuali” ma la rapidità di connettere fatti apparentemente estranei tra loro e di concepire i mezzi adeguati al fine, per trovare gli interessi in gioco e suscitare le passioni e indirizzare questi a una determinata azione […] D’altronde, il “capo” in politica può essere un individuo, ma anche un corpo politico più o meno numeroso […]. Se si dovesse tradurre in linguaggio politico moderno la nozione di “principe” così come essa serve nel libro di Machiavelli, “principe” potrebbe essere un capo di stato, un capo di governo ma anche un capo politico che vuole conquistare uno stato o fondare un nuovo tipo di stato: in questo senso principe potrebbe tradursi in lingua moderna “partito politico”. [12]

 

Sempre sullo stesso argomento Gramsci attenua la funzione del “capo” e pone l’accento sull’“organismo” preoccupato forse della precarietà del singolo più soggetto ad azione compiuta, a processi di erosione per l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo che possono distruggere il carattere “carismatico” del condottiero, come la storia largamente dimostra. Scrive:

 

II moderno principe, il mito-principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia iniziato il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali. [12]

 

Questo precostituirsi e immedesimarsi nel divenire stato è al centro del pensiero di Gramsci il quale precisa ancora meglio tale visione politica del partito-stato:

 

II partito politico ha “il potere di fatto”, esercita la funzione egemonica e quindi equilibratrice di interessi diversi nella “società civile, che però è talmente intrecciata di fatto con la società politica che tutti i cittadini sentono che esso invece regna e governa. In questa realtà, che è in continuo movimento, non si può creare un diritto costituzionale, del tipo tradizionale, ma solo un sistema di princìpi che affermano come fine dello stato la sua propria fine, il suo proprio sparire, cioè il riassorbimento della società politica nella società civile”. [12]

 

Non è di secondaria importanza notare il nesso esistente tra le due concezioni del potere: al vecchio principe di Machiavelli affidava il compito di liberare l’Italia dal dominio straniero dando così inizio allo stato moderno, precisando le norme, lecite o no, purché atte a mantenere lo stato; mentre al nuovo principe, cioè il partito politico, non la classe che lo esprime, Gramsci affida il compito della trasformazione della società. La sola affinità in questo paradossale accostamento consiste nel tipo di esercizio del potere che nell’un caso o nell’altro è basato sulla dittatura dall’alto sia nella persona di un capo sia in quella di un partito politico. Aleggia su tutta l’impostazione teorica del principe-partito politico, come nebulosa, il principio leninista della dittatura proletaria la cui funzione egemonica di classe finisce per attenuarsi e svanire in una funzione “egemonica e quindi equilibratrice di interessi diversi”, in una mistificazione vera e propria tipica come in un qualsiasi stato di diritto della tradizione democratico-borghese.

 

Per avere una conoscenza più approfondita di come Gramsci senta il problema dello stato bisogna riandare a quella forma-sintesi del suo “blocco storico” in cui si attua la socializzazione della scienza politica e della scienza economica. In un passo delle Lettere dal carcere Gramsci, nel tentativo di precisare il concetto di intellettuali in quanto mediatori del consenso indispensabile ad ogni esercizio di egemonia, scrive:

 

Io estendo molto la nozione di intellettuale e non mi limito alla nozione corrente che si riferisce ai grandi intellettuali. Questo studio porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che al solito è inteso come società politica (o dittatura o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione e l’economia di un momento dato) e non come un equilibrio della società politica con la società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull’intera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni cosiddette private, come la Chiesa, i sindacati, le scuole, ecc.) e appunto nella società civile specialmente operano gli intellettuali (Benedetto Croce, per esempio, è una specie di papa laico ed è uno strumento efficacissimo di egemonia anche se volta per volta possa trovarsi in contrasto con questo o quel governo ecc). Da questa concezione della funzione degli intellettuali, secondo me, viene illuminata la ragione o una delle ragioni della caduta dei comuni medievali, cioè del governo di una classe economica, che non seppe crearsi la propria categoria di intellettuali e quindi esercitare un’egemonia oltre che una dittatura [il corsivo è nostro]. [16]

 

Prima ancora di prendere in esame la distinzione gramsciana tra egemonia e dittatura, ci preme chiarire il perché della nostra sottolineatura fatta nel brano sopra citato e lo facciamo con le parole di Lenin che definisce in modo lapidario e per noi definitivo, la reale natura dello Stato:

 

Per Marx lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra; è la creazione di un ordine che legalizza e consolida questa espressione, moderando il conflitto tra le classi. Per gli uomini politici piccolo-borghesi l’ordine è precisamente la conciliazione delle classi e non l’oppressione di una classe da parte di un’altra; attenuare il conflitto vuoi dire per essi conciliare e non già privare le classi oppresse di determinati strumenti e mezzi di lotta per rovesciare gli oppressori. [14]

 

Dal che si deduce in linea di massima, che chi dissente da questa visione dello stato propria di Marx e di Lenin non ha i piedi nel marxismo e conseguentemente non potrà né aspirare né operare in funzione di prospettive storiche quali sono ipotizzate dalla dottrina e dalla prassi rivoluzionaria rigidamente di classe proprie del marxismo.

 

Tutto Gramsci è da esaminare partendo dall’angolo visuale della classe fondamentale, ciò che la miriade di intellettuali che si sono cimentati fin qui ad esaminare le mille facce del gramscismo non hanno fatto.

 

Il problema dello stato, a cui approdano necessariamente tutte le filosofie politiche, mette a nudo il vero volto del gramscismo nel suo contenuto impregnato di neo-moderatismo e di pragmatismo a sfondo pedagogico. E la logica conclusione d’una faticosa, sofferta e a volte distorta concettualità che avrebbe voluto mirare, senza riuscirvi, alla definizione d’una nuova visione del mondo a cui mancava un suo particolare e caratteristico retroterra culturale e politico, un nucleo teorico originale e unitario, fortemente radicato in una realtà viva da plasmare, imposta da una svolta nuova e concretamente feconda della storia, quella viva e creatrice che attende, per esprimersi, il suo profeta. Ma non di un profeta che si orpellasse del ciarpame liberaldemocratico d’un pur grande Croce e dello spiritualismo mitico e decadente dei Bergson e dei Sorel.

 

Rifacciamo a ritroso l’iter percorso dal pensiero di Gramsci. Inizia con l’idea che è l’organizzazione dei Consigli, come prefigurazione della società futura, la forza motrice della rivoluzione; poi questa idea-forza si sposta nel partito di classe, quale che sia il modo gramsciano di concepirne l’organizzazione. Fin qui la fase che si chiude col crollo del partito per la promulgazione delle leggi eccezionali fasciste. Nel carcere inizia la seconda fase, quella del ripensamento critico sorretto dall’approfondimento della sua già vasta cultura, il tutto filtrato attraverso gli alti e bassi di una cupa e dolorosa solitudine che ha in buona parte condizionato ed esasperato quella potente macchina pensante, ch’era il suo cervello, in un organismo sempre più corroso dal male. È questo il periodo fecondo della sua maggiore e più smarrita elaborazione in cui è evidente il segno di una visione teorica che vien fuori da acute e attentissime letture più che da una realtà effettuale: teoria della scissione, processo molecolare, rivoluzione passiva, guerra di posizione, consenso, egemonia e blocco storico come momento di sintesi del lungo processo di sviluppo democratico che si identifica e si placa nello spirito assoluto, punto limite della filosofia-politica che vedrebbe così risolto il passaggio dal regno della necessità e della coazione al regno della libertà che si concretizza nel governo dei produttori.

 

C’è chi ha osato definire questo schema come la “nuova, originale ed organica via al socialismo” cosa che sul piano dottrinario non può neppure essere definita revisionismo al marxismo scientifico, neppure teoricamente ad esso parallela, ma come la sua fondamentale contrapposizione.

 

Nei Quaderni del carcere Marx e Lenin assumono pressappoco la stessa importanza d’un qualsiasi abate Bresciani.

 

È quindi sul problema dello Stato che avviene la verifica della validità d’una dottrina filosofico-politica. In contraddizione a Marx e Lenin, Gramsci scrive:

 

Compito educativo e formativo dello Stato, che ha sempre il fine di creare nuovi e più alti tipi di civiltà [anche lo Stato capitalista? notiamo noi], di adeguare la “civiltà” e la moralità delle più vaste masse popolari alle necessità del continuo sviluppo dell’apparato economico di produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei tipi nuovi di umanità. Ma come ogni singolo individuo riuscirà a incorporarsi nell’uomo collettivo e come avverrà la pressione educativa sui singoli ottenendone il consenso e la collaborazione, facendo diventare “libertà” la necessità e la coercizione? [12]

 

In un altro passo affronta il problema della concezione del diritto a mezzo del quale lo stato esprime l’essenzialità vitale del suo essere stato:

 

Se ogni stato tende a creare e a mantenere un certo tipo di civiltà e di cittadino (e quindi di convivenza e di rapporti individuali), […] il diritto sarà lo strumento per questo fine (accanto alla scuola ed altre istituzioni ed attività) e deve essere elaborato affinché sia conforme al fine […]. [12]

 

E insiste a martellare questi stessi concetti-base intorno allo stato che considera come ente a cui attribuisce il compito primario d’ordine pedagogico:

 

In realtà, lo stato deve essere concepito come “educatore”, in quanto tende appunto a creare un nuovo tipo o livello di civiltà […] e, in quanto opera soprattutto sulle “forze economiche” e su quelle della sovrastruttura anche in questo campo è uno strumento di “razionalizzazione, di accelerazione e di taylorizzazione” [per concludere che] il diritto è dunque repressivo e negativo (nella misura che preme, incita, sollecita e ‘punisce’) di tutta l’attività positiva di incivilimento svolta dallo stato. [12]

 

Ma si tratta d’una lezione di diritto costituzionale sempre e comunque valida e a cui bisogna non solo credere ma anche sottostare, sulla base del rispetto personale, ad una storiografia integrale, anche se in questo contesto è evidente il contrasto con le verità parziali ed episodiche che tale diritto negano in quanto fittizio e del tutto inesistente?

 

Quando Gramsci scriveva tutto ciò sul diritto in una cella del carcere fascista, vittima del conflitto di classe, aveva forse coscienza di dare il sacrificio di se stesso e di tanti altri come momento espiatorio dovuto a tutta l’attività positiva di incivilimento svolta dallo stato? Questa specie di statolatria, così ricorrente negli scritti di Gramsci, è dovuta al bisticcio teorico sul modo di concepire la storia, tra una storia “integrale” cioè universalisticamente intesa, e una storia “polemica” quindi unilaterale; appunto critico, quest’ultimo, che lo stesso Gramsci faceva ad esempio al volume di Salvemini sulla Rivoluzione Francese, ma soprattutto al persistere in lui della tendenza al convogliamento delle nuove forze sociali emergenti (consigli, partito) sull’asse portante dell’attività positiva di “incivilimento” che egli attribuisce allo stato e il loro concrescere con tale attività. Aveva infatti scritto:

 

La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale”. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a “liquidare” o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche “dirigente”. [17]

 

È un riecheggiamento dei motivi di fondo già sostenuti all’epoca dei Consigli con l’idea fallace del loro coinvolgimento e crescita sul tronco dello stato.

 

È ora di iniziare, in questo nostro excursus del pensiero di Gramsci, a tirare i remi in barca e a formulare le prime conclusioni critiche.

 

Le considerazioni intorno ad un incompiuto Risorgimento con un capitalismo appena incipiente, senza una seria connotazione di classe, senza un proletariato moderno con precisa fisionomia economica e politica, perciò confuso genericamente nel popolo, ancora esso stesso popolo, con la pluralità diversamente caratterizzata delle classi medie e degli intellettuali, in una parola un Risorgimento nazionale senza una vera e propria coscienza nazionale e soprattutto senza la capacità obiettiva di darsi le idee quindi i mezzi d’una rivoluzione democratica borghese. Tali considerazioni risospingono Gramsci alle influenze culturali gobettiane e a certe loro affinità intellettuali, con questa differenza: che l’intuizione politica di Gobetti era assai più ardita, lineare e conseguente di quanto non lo fosse quella di Gramsci; l’uno affidava al proletariato il ruolo di protagonista della rivoluzione liberale; l’altro era culturalmente irretito nella permanenza d’una rivoluzione passiva e della guerra di posizione, caratteristiche del Risorgimento italiano, che poteva al massimo concludersi in una Costituente repubblicana sempre quindi nel quadro istituzionale borghese. Motivi ideali e politici che riemergeranno nel cuore della II Guerra Mondiale con protagonisti diversi ma con non diversa conclusione.

 

Tutta l’opera di Gramsci, pur nella sua disorganicità e incompiutezza, dà l’impressione d’una ammirevole girandola di problemi di filosofia, di politica, di letteratura, un po’ meno di economia, di cui preferiva esaminare i riflessi sovrastrutturali che non offrono la possibilità di sintesi organica da cui trarre un preciso insegnamento. Eppure gli anni che stiamo vivendo portano in buona parte il segno della sua personalità forse perché, più d’ogni altro è rimasto imbrigliato nella rete non solo culturale della decadenza capitalista, incapace perciò di vederne i segni premonitori del superamento rivoluzionario.

 

Ma due trattazioni caratterizzano in pieno il suo mondo ideologico e politico, quella sua “egemonia” a cui ci siamo ampiamente riferiti e quella della “guerra di posizione” che rimangono i pilastri su cui poggiano più o meno validamente le sue più rilevanti conclusioni politiche.

 

Tutto il periodo di tempo preso in esame da Gramsci è la storia risorgimentale la cui connotazione maggiore è quella della rivoluzione passiva che ha per corollario, in termini “militari”, la guerra di posizione in cui il proletariato gioca il ruolo di classe sottoposta che tende all’egemonia come fine storico ma non è né può essere egemone; anzi come classe antagonista è aperta al conflitto di classe per difendere il diritto alla sopravvivenza e sotto questo rapporto la lunga serie delle lotte rivendicative hanno più carattere corporativo che di vera e propria lotta di classe, aperta perciò tanto agli slanci offensivi fino all’uso episodico della violenza quanto alle repressioni feroci e ad ogni forma di contaminazione ideologica, politica e religiosa esercitata dagli intellettuali e dal clero, strumenti tradizionali dell’avversario di classe.

 

Non vi è dubbio che, in questo inarrestabile conflitto di classe, il proletariato è protagonista essenziale quanto lo è il capitalismo, ma non è egemone dal punto di vista del potere reale e quindi dello stato che lo esprime perché è fuori e contro questo stato in quanto antagonista della sua classe dirigente che tende a sopraffare per di venire esso stesso dirigente.

 

Il perenne processo molecolare di aggregazione e disgregazione che ora ristagna, ora ribolle entro gli argini della rivoluzione passiva, se da una parte dà l’impressione di un supposto immobilismo storico, dall’altra parte è scarsamente decifrabile quali siano, in questo mare magnum della politica italiana che va dal Risorgimento ad oggi, i fattori progressivi e quali i regressivi. Se, ad esempio, l’esperienza fascista è posta da Gramsci sul piano delle forze progressive della rivoluzione passiva e non su quello della controrivoluzione, sul perché aveva intravisto un embrione di grandismo monopolistico nell’ambito dell’industria di stato.

 

In quest’ampio spazio temporale il processo molecolare trova la molla del suo procedere in un disordinato susseguirsi di piccole scissioni nessuna delle quali perviene ad una vera e propria scissione tale da cambiare il corso della storia cui gli spostamenti di forza danno senso e contenuti nuovi. In una parola, per Gramsci siamo tuttora imprigionati in una guerra di posizione in cui la tattica è tutto e la strategia è nulla.

 

È tuttavia chiaro che il gioco, del tutto formale, delle piccole scissioni che caratterizzerebbero la fase della rivoluzione passiva non ha nulla a che vedere con la teoria marxista del perenne conflitto, con le sue inevitabili alterne vicende, tra le due classi fondamentali protagoniste in tutto l’arco storico del capitalismo, dalla fase della sua ascesa a quella attuale del deperimento e della crisi insanabile che Gramsci non aveva previsto, nei termini almeno, che sono propri della previsione marxista.

 

La stessa egemonia, nella formulazione gramsciana, dà adito a interpretazioni varie e tra loro contraddittorie: ora si afferma l’egemonia della classe fondamentale che la esercita già prima ancora della conquista del potere, ora la classe fondamentale la si vede esercitare il potere dello stato e non è dittatura e si tace sul come e con quali mezzi si passa dalla rivoluzione passiva a quella attiva che distrugge e crea, dalla guerra di posizione a quella di movimento.

 

Il passaggio avverrà per via pacifica e parlamentare, a suon di voti, per una specie di osmosi politica lenta e senza colpo ferire oppure lo scontro storico tra le due classi egemoni, una in fase calante e l’altra in fase ascendente, avrà il suo epilogo in una insurrezione armata e quindi nella conquista violenta del potere che comporta la distruzione dello stato e l’instaurazione d’un nuovo ordine?

 

Gramsci procede per accenni su questi problemi di fondo ed elude ogni impegno di approfondimento. E soprattutto evita, volutamente, lo scioglimento del nodo teorico dell’egemonia della classe fondamentale che come tale non può essere che una (fase dei consigli e del partito) in confronto al blocco storico di forze e ideologie diverse che, per sua natura, è molteplice.

 

E proprio della mistica religiosa l’uno e trino, e più in generale l’inconciliabilità tra unità e molteplicità, l’uno potrà fondersi e annullarsi nel molteplice ma non inversamente se non si vuoi tornare alla scolastica.

 

In termini politici se l’uno si identifica con la classe fondamentale, il proletariato, il suo affermarsi come classe egemone che esercita transitoriamente la sua egemonia (dittatura del proletariato) tende a superare se stessa con tutte le sue strutture, sovrastrutture che sono gli strumenti dell’esercizio della sua dittatura. Nella tematica gramsciana tale ipotesi non trova posto per la elementare constatazione che il suo blocco storico è per sua composizione, non uno ma molteplice, non è d’una sola classe, pur con le sue diversificazioni strutturali, ma d’una alleanza di forze di ispirazioni diverse per natura e grado socio-economico che, data la sua forma composita, obbedisce alla dinamica del pluralismo.

 

Chiuso nel groviglio delle contraddizioni, un concentrato sovra-strutturale di idee diverse, di diversi comportamenti e impulsi che non trovano soluzione in un punto d’unità concettuale, Gramsci è l’intellettuale classico che rivive dentro di sé, volta a volta, le influenze di ciò che esamina e se ne impossessa come d’una sua creazione originale e non certo il politico che si avvale dei dati offertigli da un esame critico dei fenomeni che emergono dal tessuto sociale e politico in continuo movimento per riunirli in una visione d’insieme per la realizzazione d’una politica che, comunque, anche nelle sue pagine, non è mai di classe, di quella classe che porta in sé la ragione storica e la forza strutturale del superamento rivoluzionario. Teorizza una visione del mondo basata su un indistinto movimento molecolare in un perenne intreccio di forze emergenti e di quelle destinate a scomparire, che per Gramsci è la fase della rivoluzione passiva affossata nelle salde trincee della guerra di posizione. Ne risulta un progredire degli uomini e delle cose ad infinitum, lungo una linea mediana di piccole scissioni che si ricompongono senza un punto terminale di sintesi, neppure come ipotesi di lavoro, che concretizzi l’atto chirurgico della violenza rivoluzionaria. Tradotto in termini di politica attiva, tutto si riduce ad un processo lineare di democrazia progressiva che nel contingente può avere il suo momento catartico nella Costituente repubblicana che placa l’ansia del suo Storicismo assoluto, modulato su quello crociano, nel quadro istituzionale del capitalismo, al di fuori e al di sopra d’ogni trauma che un trapasso rivoluzionario inevitabilmente porterebbe con sé.

 

Lo stesso Nicola Badaloni, che così appassionatamente e faticosamente ha tentato l’opera di ricomposizione politica d’un supposto marxismo di Gramsci, posto di fronte all’interpretazione del duplice senso dello “storicismo” quale emergenza politica d’una nuova civiltà (il socialismo) finisce con l’individuare il senso più ovvio e conseguente scrivendo:

 

Nel secondo senso lo storicismo, che dal punto di vista delle classi dominanti è teoria della rivoluzione passiva, rischia dal punto di vista della nuova classe fondamentale, di riconfondersi con un processo evolutivo lineare [il corsivo è nostro] […]. Questo secondo senso dello storicismo è in realtà presente in Gramsci solo perché in ogni situazione storica (cioè ad ogni nuovo configurarsi dei rapporti di forza) il problema della emergenza si pone in modo specificamente corrispondente. Per questo lato, si tratta di una particolare utilizzazione di strumenti leninistici il cui punto d’arrivo può non essere in contrasto colla conclusione del tardo Togliatti che il processo di emergenza esige una teoria del prolungamento storico delle “situazioni democratiche” e consente la transizione, attraverso di esso, alla nuova civiltà. [18]

 

Passaggio dunque indolore, democratico, parlamentare al socialismo o ricorso obbligato all’uso della violenza rivoluzionaria? Andiamo a sondare ciò che è avvenuto in certi momenti della storia del conflitto tra le classi e l’insegnamento che ne hanno tratto i maggiori studiosi dei fenomeni socio-economici della scuola marxista.

 

Se l’ideologia borghese, riflettendo la tendenza alla unificazione capitalista, ha proclamato il progresso dell’uman genere, il materialismo storico, invertendo e senza proclamazioni, ha scoperto che nell’antitesi fu fino ad ora la causa ed il movente di ogni accadimento storico. E perciò il moto della storia, preso in generale, ci si rivela come oscillante, o meglio ci pare si svolga sopra una linea spezzata, che cambia spesso di direzione e di nuovo si spezza […] un vero zig, zag.
Procedere in linea retta, non andare che da una parte, con l’andatura da fantoccio, secondo la pratica, da ciechi del soggetivismo; ecco i procedimenti e le maniere ideologiche dell’idealismo. [19]

 

E Plekhanov:

 

La storia è costantemente occupata a preparare “salti” e “rovesciamenti”. Essa fa quest’opera assiduamente e imperturbabilmente; lavora lentamente, ma i risultati dei suoi sforzi (salti e catastrofi politiche) sono ineluttabili e inevitabili.
Lentamente si compie la “trasformazione del tipo” della borghesia francese, il cittadino dell’epoca della Reggenza non assomiglia al cittadino dell’epoca di Luigi XI […] Esso è divenuto più ricco, più istruito, più esigente, ma non ha cessato d’essere un plebeo che deve sempre e comunque cedere il passo all’aristocrazia. Ma ecco che arriva l’anno 1789, il borghese alza fieramente la testa. Passano ancora alcuni anni e diviene il padrone della situazione, ma in che modo! “con dei torrenti di sangue, al suono dei tamburi” accompagnato dalle “detonazioni della polvere” se non della dinamite che non era ancora inventata. Esso obbliga la Francia ad attraversare un vero “periodo di distruzione” […]. [20]

 

Lo stesso cittadino dovrà difendere sulle barricate nelle giornate di luglio 1830 i diritti della sua classe contro il potere assolutistico dell’antico regime.

 

Lo stesso cittadino, fatto ora operaio dell’industria, prima espressione del moderno proletariato, difenderà da solo ancora sulle barricate parigine del 1848 la sua ragione di vita, il divenire dello stesso proletariato internazionale di fronte all’assalto della stessa borghesia divenuta, nella sua essenza politico-sociale e al vertice della sua organizzazione, conservatrice e alleata contro di lui con le forze della nobiltà e del clero.

 

E si batterà nella Comune di Parigi (1871) fatto ormai adulto alla scuola del socialismo scientifico, della I Internazionale e della guerra civile; in coerenza quindi con le istanze permanenti della rivoluzione continuerà a battersi nella grande Rivoluzione Russa che dal 1905 al 1917 ha espresso i caratteri e il fondamento della rivoluzione internazionale del proletariato ponendolo definitivamente all’ordine del giorno della storia del mondo.

 

In questo profilo degli accadimenti la linea generale di sviluppo può sembrare la linea ascendente d’una evoluzione verso un tipo superiore di vita sociale e politica; in realtà questa linea assomma una serie di urti di forze in contrasto in cui il passaggio da una fase all’altra non avviene per effetto di un’armonica conciliazione dei termini contrapposti, ma per effetto d’un loro superamento dialettico che ogni volta implica lacerazione e ogni lacerazione implica violenza. E un accumularsi in ogni caso di ondate confluenti tutte in una immensa, irrefrenabile ondata sulla cui cresta è condensata la violenza di tutte le contraddizioni che ogni periodo dato della storia porta nel suo seno.

 

I cambiamenti quantitativi — ammonisce Plekanov — accumulandosi a poco a poco, divengono finalmente cambiamenti qualitativi. Queste transizioni si compiono per salti e non possono compiersi altrimenti […] L’evoluzione economica conduce necessariamente alla rivoluzione politica e quest’ultima sarà, a sua volta, l’origine di cambiamenti importanti nel regime economico della società. [4]

 

La trasformazione del modo di produzione sarà il risultato d’un rovesciamento compiuto con la violenza. Non esiste epoca storica in cui la violenza non sia apparsa come la sola inevitabile levatrice della storia e soprattutto non esiste cambiamento di regime fatto con altri mezzi che non siano quelli della distruzione delle fondamenta di una società che ha portato a compimento la sua esperienza e non ha più nulla da dire nella storia del progresso umano. Sta di fatto che nessuna società, nessuna classe è disposta a rinunciare al proprio ruolo dirigente. Da qui torrenti di sangue, da qui la violenza che inevitabilmente chiama altra violenza.

 

Provino i teorici del revisionismo a dimostrare un diverso cammino delle vicende umane e soprattutto ci diano i precedenti storici che al lume della dialettica marxista dimostrino la possibilità obiettiva d’una coesistenza pacifica e competitiva tra capitalismo e proletariato che renda superfluo, inutile e soprattutto impossibile l’uso della violenza rivoluzionaria.

 

La tesi di questi signori per cui l’esistenza d’un vasto e consolidato “campo” di economia socialista in pieno sviluppo nel cuore dell’economia capitalistica, è sufficiente per evitare guerre e rivoluzioni, dato e non concesso che tale campo esista, dovrebbe semmai legittimare la prospettiva d’una soluzione catastrofica del dualismo per la inconciliabilità di due regimi i cui interessi sono spinti ad annullarsi vicendevolmente e mortalmente e in nessun caso quella dei placidi tramonti cari ai politici delle riforme.

 

E siamo alle conseguenze pratiche del capovolgimento operato in sede dottrinaria, che consiste nel conquistare una salda maggioranza nel parlamento e trasformarlo da organismo della democrazia borghese in quello della volontà popolare: strumenti di lotta la competizione elettorale e la scheda.

 

Per giustificare l’ennesima svolta si è fatto appello nientemeno che a Marx e più precisamente al suo discorso tenuto alla sezione dell’Internazionale dell’Aja l’8 settembre 1872 con il quale affermava che:

 

la rivoluzione è inutile là dove il proletariato abbia modo di far valere la propria voce con mezzi democratici,

 

citando a titolo di esempio alcuni paesi (Stati Uniti, Inghilterra e probabilmente altri). E chi ha scritto queste righe aveva la piena coscienza di barare ai danni della serietà dottrinaria del marxismo e d’una sua esatta interpretazione.

 

Si gioca sulle parole, si ricorre al sillogismo al posto d’una valutazione dialettica, si va alla ricerca dell’episodio in sostituzione alla visione d’insieme dell’esperienza di classe e degli strumenti di difesa e di offesa offerti alla classe dirigente dall’esercizio del potere basato su un enorme potenziale di autorità e di violenza.

 

Di tutta la vasta e complessa opera di Marx, di tutti gli insegnamenti che costituiscono quel complesso monolitico del suo pensiero cui, a dire di Lenin non si può togliere nessuna premessa fondamentale, nessuna parte essenziale senza allontanarsi dalla verità oggettiva, senza cadere nella reazionaria menzogna borghese, i neorevisionisti vanno a tirar fuori il congresso dell’Aja per coprire nel nome di Marx l’avariatissima mercée della “molteplicità delle vie del socialismo” che per loro è poi, in definitiva, la sola via parlamentare.

 

Non importa che il richiamo a Marx ci riporti al 1872, in evidente e fondamentale contrasto con la fase storica attuale; non importa che Marx stesso abbia nel contempo fornito il modo della sua esatta interpretazione; non importa nemmeno che tutto il pensiero filosofico, storico-politico di Marx prima del 1872 e dopo, come la sua stessa opera d’uomo politico e di rivoluzionario contrasti violentemente con l’interpretazione che han voluto darne i politici del parlamentarismo della II Internazionale e i tardi epigoni dell’odierno e assai peggiore parlamentarismo, ancora più corrotto e corruttore.

 

Conosciamo in proposito l’interpretazione di Lenin:

 

Nell’epoca in cui Marx faceva questo rilievo, in Inghilterra e in America appunto, e appunto nel decennio 1870-1880 quelle istituzioni [militarismo e burocrazia — nda] non esistevano (oggigiorno invece esistono tanto in Inghilterra quanto in America). [21]

 

Ed è per lo meno curioso che Lenin facesse questa constatazione in polemica con Kautsky, quando lo stesso Kautsky, sempre sullo stesso argomento, scriveva nella prefazione alla quinta edizione tedesca (1904) del suo Programma socialista:

 

Quando nacque il programma di Erfurt, la possibilità che il proletariato conquistasse il potere politico senza catastrofi, appariva, in parecchi Paesi, per esempio in Inghilterra, molto più verosimile che non oggi.

 

Si era nel 1904, agli inizi cioè, della politica imperialista nel mondo.

 

Ma ai “cafoncelli” della cultura in genere e di quella marxista in particolare, va ricordato che al Marx del Manifesto, al Marx della visione dialettica della storia e del rovesciamento della prassi e dell’analisi critica della Guerra civile in Francia, non si possono in nessun caso riferire le teorie della coesistenza pacifica e competitiva tra capitalismo e proletariato, la pluralità delle vie del socialismo, e l’avvento del socialismo col rispetto della legalità democratica quale sancita dalla costituzione quando si è opposizione e quando si è maggioranza. Queste teorizzazioni sono i miasmi che appartengono ad una società putrescente qual’è il capitalismo nella fase attuale della sua decadenza sia esso nella forma di capitalismo di Stato russo come in quella del capitalismo americano.

 

I nostri “cafoncelli” si sono dimostrati al di sotto dello stesso opportunismo di Kautsky.

 

Ma è bene precisare che neppure nel famoso discorso tenuto alla sezione dell’Internazionale dell’Aja, Marx ha voluto dare alle sue parole il significato che l’opportunismo internazionale ha voluto loro attribuire.

 

Ci riferiamo ai dati storici di quel periodo che i neo-revisionisti fingono di ignorare. L’8 Settembre, il giorno dopo la chiusura del Congresso dell’Aja, ad Amsterdam si ebbe una riunione della sezione regionale. Vi presero la parola Marx, Engels, Lafargue, Sorge ed altri. Nel suo discorso Marx così riassumeva i risultati del Congresso:

 

Esso ha proclamato la necessità, per le classi operaie, di combattere sul terreno politico come sul terreno sociale, la vecchia società che sta crollando. L’operaio deve conquistare un giorno il supremo potere politico per garantire la nuova organizzazione del lavoro, egli deve rovesciare la vecchia politica che sostiene le vecchie istituzioni.
L’Internazionale è decisa alla lotta politica, essa ha definitivamente respinto l’astensione pseudo-rivoluzionaria.
Ma non abbiamo affatto preteso che per giungere a questo fine i mezzi dovranno essere identici. Conosciamo la parte che bisogna attribuire alle istituzioni, ai costumi, alle tradizioni dei diversi paesi e non possiamo negare che vi sono dei paesi come l’America e l’Inghilterra, in cui i lavoratori possono conseguire il loro scopo con mezzi pacifici. Se ciò è vero, dobbiamo anche riconoscere che nella maggior parte dei paesi del continente è invece la forza che dovrà essere la leva delle nostre rivoluzioni; è appunto alla forza che, per un certo tempo, bisognerà far appello, per stabilire la sovranità del lavoro.

 

Nel 1881 Marx precisava il suo pensiero a Hyndman con queste parole:

 

Se voi affermate di non condividere le opinioni del mio partito nei confronti dell’Inghilterra, io posso rispondervi soltanto che questo partito non considera la rivoluzione in Inghilterra necessaria ma, in ragione dei precedenti storici, possibile. Se l’evoluzione inevitabile prende la forma di una rivoluzione, ciò avverrà non solo per colpa delle classi dominanti ma anche per colpa della classe operaia. Tutte le concezioni parifiche della classe dominante sono state strappate in seguito a “pressioni esterne”; la loro azione è stata in rapporto con tali pressioni, e se queste sono andate via via indebolendo, ciò è avvenuto solo perché la classe operaia inglese non sa usare né della sua forza né della libertà che sono legalmente in suo possesso. In Germania la classe operaia ha avuto coscienza, dagli inizi del movimento, del fatto che non ci si può sbarazzare di un dispositivo militare se non con una rivoluzione. L’Inghilterra è uno dei Paesi nei quali una rivoluzione pacifica è possibile ma — aggiunse dopo un momento di silenzio — la storia non ce lo dice [il corsivo è nostro]. [22]

 

Engels ripigliava qualche anno dopo la morte di Marx lo stesso argomento nella prefazione alla traduzione inglese del Capitale.

 

Certamente in un momento simile, bisognerebbe prestare ascolto alla voce di un uomo la cui teoria è il risultato di una vita consacrata allo studio delle condizioni economiche dell’Inghilterra; tale studio ha portato a concludere che, per lo meno in Europa, l’Inghilterra è il solo paese in cui l’inevitabile rivoluzione sociale potrebbe effettuarsi con mezzi completamente legali e pacifici. Egli non dimenticava mai di aggiungere che non si aspettava che le classi dominanti dell’Inghilterra si sottoponessero senza “ribellione schiavista” ad una simile rivoluzione pacifica e legale [il corsivo è nostro].

 

 

 

[4] Plekhanov, Les questions fundamentales du marxisme.

 

[6] Engels, Ludovico Feuerbach.

 

[7] Gramsci, II materialismo storico e la filosofia di B. Croce.

 

[8] Marx, Prefazione a: Per la critica dell’economica politica.

 

[9] Lenin, Materialismo e empiriocriticismo.

 

[10] Marx, Il Capitale, “Poscritto alla II Edizione”.

 

[11] Gramsci, Passato e Presente.

 

[12] Gramsci, Note sul Machiavelli.

 

[13] Gramsci, L’Ordine Nuovo, articolo apparso sul n. 21 dell’ottobre 1919.

 

[14] Lenin, Stato e Rivoluzione.

 

[15] Ci si riferisce alla nascita del Partito Comunista Internazionalista, sorto nel 1943 quale unica risposta alla degenerazione del PCI e alla Seconda Guerra Mondiale.

 

[16] Gramsci, Lettere dal Carcere.

 

[17] Gramsci, Il Risorgimento.

 

[18] Badaloni, Il marxismo di Gramsci, Einaudi, Torino 1975.

 

[19] Labriola, Del materialismo storico.

 

[20] Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966.

 

[21] Lenin, La Rivoluzione Proletaria e il rinnegato Kautsky.

 

[22] Marx-Engels, Opere Scelte, Editori Riuniti, Roma 1952.


Imola e Livorno: la fase della costruzione del partito



Imola e Livorno

 

Allora la frazione astensionista del Partito Socialista era indubbiamente, data la forte caratterizzazione impressa alla sua piattaforma teorica e la efficiente ramificazione dei suoi gruppi su scala nazionale, l’organizzazione più viva e operante in opposizione alla linea politica della Direzione del Partito e poteva già considerarsi, in embrione, un partito nel partito. Tuttavia Bordiga, nel momento più acuto della esperienza del primo stato proletario uscito dalla rivoluzione d’ottobre, se da un lato aveva sentito più d’ogni altro la necessità della presenza d’un partito concretamente rivoluzionario, dall’altro aveva chiara la coscienza dei limiti della possibilità di affermazione, della frazione astensionistica come partito della classe operaia. Anche se si fosse avuta la scissione al Congresso di Bologna (1919) la frazione astensionistica come tale non avrebbe obiettivamente potuto dar corpo ad un partito adeguato alla situazione e ai compiti della rivoluzione incombente. Se alla frazione astensionista fosse stata attribuita questa possibilità di affermazione il non aver scissionato a Bologna sarebbe stato errore di tali proporzioni da compromettere per sempre l’impostazione teorica della frazione la sua organizzazione e il nome del suo maggiore animatore.

 

Ecco perché Imola è stato praticamente il convegno del compromesso, una anticipazione pratica del “blocco storico” gramsciano in funzione delle forze di sinistra nel partito socialista, un centro insomma, di convergenze, di correnti di formazioni diverse e tra loro in contrasto su molti problemi anche d’importanza fondamentale.

 

Questa convergenza di forze, per la verità, non ebbe come centro la frazione astensionista anche se questa rappresentava il nucleo di maggiore rilievo, ma il pensiero di Lenin, il fascino della rivoluzione d’ottobre e le esigenze organizzative dell’Internazionale Comunista.

 

Del resto tutto ciò avveniva non in contrasto col pensiero e le posizioni della frazione astensionista ma in perfetta armonia coi suoi stessi deliberati; si ricordi in proposito la mozione conclusiva della Conferenza Nazionale della frazione tenutasi a Firenze (8-9 maggio 1920) accapo 3, che dava mandato al Comitato Centrale:

 

di convocare immediatamente dopo il congresso internazionale, il congresso costituente del Partito Comunista, invitando ad aderirvi tutti i gruppi che sono sul terreno del programma comunista, dentro e fuori del Partito Socialista Italiano.

 

Soltanto che Imola e Livorno daranno poco dopo a tale direttiva tattica una traduzione teorico-organizzativa assai peggiorata.

 

Ecco i gruppi e le correnti che aderiranno in condizioni di parità al Congresso di Imola e formeranno l’ossatura del partito di Livorno.

  1. La frazione astensionista di cui abbiamo fatto cenno più sopra e che merita una trattazione a parte per quel che ha rappresentato di positivo in questa fase di preparazione del partito e per quel che ha rappresentato di negativo per il suo eclettismo tanto nella formulazione come nell’applicazione sul piano della politica attiva delle sue tesi sull’astensionismo.
    Nella frase pre-Livorno, il problema essenziale era quello della formazione del partito rivoluzionario e non quello dell’astensionismo, e non era storicamente possibile costituire tale partito su una base programmatica in cui l’ideologia astensionista avesse una parte preminente.
  2. II gruppo dell’Ordine Nuovo. Per la natura della sua composizione sociale e soprattutto intellettuale questo gruppo appariva come una anticipazione della tendenza, che poi si farà strada, che attribuisce agli intellettuali il ruolo primordiale o in connessione a quello giocato dagli operai tanto nell’ambito della fabbrica come nel più vasto quadro dell’azione rivoluzionaria.
    Influenzato dal neoidealismo allora prevalente nel mondo della cultura borghese, il gruppo tendeva al marxismo, ma ad un marxismo filtrato nel setaccio dell’idealismo in contrasto con gli schemi tradizionali del socialismo e della stessa sinistra socialista.

Infatti mentre la frazione di sinistra pensava che la rivoluzione è subordinata alla esistenza del partito e mira alla conquista dei suoi organi dirigenti per imprimere loro una volontà e una direzione rivoluzionaria seguendo in ciò la linea tradizionale del partito di classe, gli ordinovisti credevano meno a questo ruolo fondamentale del partito e spostavano la loro attenzione verso la fabbrica capitalista che consideravano:

 

come forma necessaria della classe operaia, come organismo politico, come “territorio nazionale” dell’antagonismo operaio.

 

Per questi compagni, a differenza del partito e del sindacato, il Consiglio:

 

si sviluppa non aritmeticamente, ma morfologicamente e tende, nelle sue forme superiori, a dare il rilievo proletario dell’apparecchio di produzione e di scambio creato dal capitalismo ai fini del profitto.
L’urgere di questa nuova fioritura di poteri [l’organizzazione dei consigli — nda] che sale irresistibilmente dalle grandi masse lavoratrici, determinerà l’urto violento delle due classi e l’affermarsi della dittatura proletaria. Se non si gettano le basi del processo rivoluzionario nell’intimità della vita produttiva, la rivoluzione rimarrà uno sterile appello alla volontà […].

 

Gramsci, L’Ordine Nuovo, n. 18 del settembre 1919

 

Il contrasto tra le due correnti si precisa perciò nell’idea centrale partito e Consigli; il partito trova il suo ambiente storico nella struttura territoriale e negli organismi politico-amministrativi dati dallo sviluppo del capitalismo, mentre i Consigli incarnano lo slancio vitale, il ritmo di progresso della società comunista; nel partito si condensa la forma più alta della coscienza del proletariato, la sua dottrina e la teoria della sua rivoluzione di classe, mentre nei Consigli la solidarietà operaia:

 

è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale […], è un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che […] afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia.

 

Gramsci, L’Ordine Nuovo, n. 21 ottobre 1919

 

Si può quindi concludere che queste due correnti, le maggiori che formarono il Partito Comunista, potevano avere in comune la visione dello sbocco finale dell’azione rivoluzionaria ma erano quanto mai lontane nei motivi originari, nei metodi e nel modo stesso di sentire il marxismo facendo gli uni professione di ortodossia e di integralismo, inclinando gli altri verso concezioni sindacaliste rivoluzionarie alla De Leon a cui si riallacciano oggi le tendenze operaiste.

 

La cerchia della confusione teorica e tattica dei gruppi che confluirono al Convegno di Imola si allargherebbe ulteriormente se prendessimo in esame correnti minori e adesioni individuali, dalla mozione-passerella di Graziadei-Marabini, al massimalismo elettoralistico dei molti deputati presenti o di aspiranti tali e alla adesione di giovani combattenti rivoluzionari saldamente ancorati al marxismo tuttavia non inquadrabili in nessuna particolare scuola o tendenza.

 

Bisognerà ritornare all’esperienza di Imola nel riproporre il problema della ricostruzione del partito là dove l’opportunismo parlamentare, la corruzione del carrierismo e il prevalere di interessi della classe avversa ne hanno spento il vigore della lotta, ne hanno offuscato gli obiettivi dopo averne corrotto il patrimonio ideale. Partendo da questa conoscenza critica si capirà il perché dei limiti, delle insufficienze e delle contraddizioni che accompagnarono la formazione del Partito Comunista d’Italia.

 

Noi rimaniamo del parere che più che agli accorgimenti organizzativi e alle disposizioni statutarie, oltre che al dissolvimento dei gruppi, in quanto gruppi, si debba porre l’accento sul dissolvimento delle loro ideologie per quel tanto che hanno in sé di estraneo al marxismo per trovare l’unità non solo negli aspetti del tutto formali dell’organizzazione (scioglimento dei gruppi, adesioni individuali, candidatura, ecc.) ma sull’adesione incondizionata e integrale ad una piattaforma teorico-pratica da cui scaturisca quella disciplina consapevole che cementa le forze, ne attenua progressivamente i contrasti e garantisce la continuità della lotta rivoluzionaria.

 

Il partito

 

Abbiamo già accennato al problema centrale del partito ma per ciò che concerne la corrente degli ordinovisti, creazione del tutto gramsciana, è doveroso aggiungere qualche considerazione che precisi di più il ruolo giocato da questa corrente negli anni ‘19 e ‘20 e la sua reale importanza.

 

Dopo la rivolta operaia di Torino del ‘17 contro la guerra e il crescente profondo disagio economico-sociale da questa imposto, che Gramsci considerava come validi tentativi di penetrazione nel dispositivo ancora saldo di difesa dell’avversario di classe e dopo soprattutto la fine disastrosa della lotta operaia scatenata con l’occupazione delle fabbriche con tutti i mezzi a sua disposizione meno quello d’una direzione a indirizzo rivoluzionario, finita con la capitolazione del sindacato e del PSI di fronte al governo di Giolitti, artefice impareggiabile di tutte le pastette di questo difficilissimo primo dopoguerra, riuscite soprattutto per la connivenza aperta o segreta del gruppo parlamentare socialista in cui imperava il riformismo turatiano, era ormai evidente, anche agli affetti da miopia cronica, che non esisteva una organizzazione del proletariato rivoluzionario che rispondesse, in toto, alle sue aspirazioni contingenti e tanto meno ai suoi compiti storici. Nella fase culmine del dopoguerra la rivoluzione proletaria non aveva avuto il suo partito e da questi una organizzazione e una direzione adeguate a tale prospettiva, né l’opposizione, del resto assai viva nel PSI, era in grado di sostituirlo in questo compito dato che i gruppi che facevano capo al Soviet di Napoli avevano esaurito la loro capacità d’iniziativa in una azione infeconda basata sull’astensionismo politicamente troppo unilaterale, angusto e scarsamente sentito dalle masse, e i gruppi torinesi degli ordinovisti, chiusi nella città della grande industria, erano caduti in una fase di scetticismo; falliti i Consigli nella grande prova come organi autosufficienti del proletariato, erano stati abituati a credere ancora, nonostante tutto, nel partito socialista e non nella necessità storica della formazione del partito rivoluzionario.

 

Soltanto dopo il Congresso di Bologna, troppo tardi ormai, si impose la necessità di unire le forze per la creazione del partito rivoluzionario.

 

Gramsci aveva già attenuato l’esclusivismo totalizzante dei Consigli e tornava a dare credito al Partito Socialista, come organo politico catalizzatore delle forze rivoluzionarie soprattutto dopo lo strepitoso successo elettorale del ‘19 che aveva portato alla camera una nutritissima schiera, almeno dal punto di vista del numero, di deputati socialisti.

 

Entrare nel processo produttivo capitalistico, soprattutto nelle strutture del settore più avanzato, quello della metallurgica, fattore determinante ed essenziale della produzione significava per lui entrare negli ingranaggi di tutto il sistema e quindi nel tessuto dello stato, da qui la visione d’una organizzazione dei Consigli connaturata con quella dello stato, non limitabile certamente al solo fattore produttivo.

 

Poi, indicato dal vertice moscovita, assurgerà alla funzione di dirigente del partito, ciò che determinerà una caduta di credibilità, di autorità e di prestigio dello stesso centro del partito, posto di fronte alla necessità di risolvere problemi di radicali trasformazioni strutturali e di allargamenti frontisti assai più grandi delle sue reali possibilità e per l’incapacità di valutare una realtà obiettiva di riflusso e di ritirata non solo delle masse operaie ma dello stesso partito, accecati dalla illusione di essere in fase di ascesa e di avere davanti a sé spazio sufficiente per farsi le ossa e divenire maggioranza di fatto. E la cecità politica è stata tale e tanta che allo scioglimento del partito imposto dalle leggi eccezionali, una caricatura di Ufficio primo, occhio sempre vigile su tutto e su tutti e strumento d’azione illegale, non è stato in grado di presentire nulla lasciando gli organismi centrali e periferici in balia dell’avversario di classe fino al punto che persino il capo del partito, Gramsci, cadesse nelle mani della sbirraglia fascista.

 

Errori di analisi della situazione, errori di prospettiva con conseguente sfascio della organizzazione è il punto terminale della curva della esperienza politica gramsciana. Esperienza che aveva preso inizio da una sua azione corrosiva contro la sinistra incentrata in un ripensamento critico sulla natura e sulle proporzioni del taglio operato a Livorno, che apriva così e ufficilamente la crisi nel partito con un aperto dissenso sulla tattica e strategia sui punti cioè fondamentali della politica su cui si era formato il partito, crisi che coverà fino all’esplosione del Comitato di Intesa.

 

A Livorno, secondo Gramsci, si era effettuato il taglio troppo a sinistra, e questa constatazione conteneva in sé la certezza e lo sviluppo inevitabile di un corso nuovo nella politica del partito da condurre senza indugio e con tutti i mezzi.

 

La caratterizzazione della posizione gramsciana non si ebbe come è noto né al Convegno di Imola, né a Livorno (1921) né al Congresso di Roma (1922) ma dopo l’esperienza russa e viennese. Tale premessa partiva da una valutazione della scissione di Livorno, considerata il “più grande trionfo della reazione” perché aveva significato “il distacco della maggioranza del proletariato italiano dall’Internazionale Comunista”. (Gramsci La questione meridionale a cura di Franco De Felice e V. Parlato). Nell’Ordine Nuovo III serie n. 2 — 15 marzo 1924, Gramsci torna sull’argomento con un articolo Contro il pessimismo il cui contenuto ha tutta l’aria d’un accorato mea culpa in cui è evidente il senso di colpa per avere accettato supinamente la politica di sinistra, sostenuta con l’autorità e la competenza di Bordiga ma soprattutto vi domina l’intenzione di sferrare una prima bordata contro lo stesso Bordiga, che è quanto dire contro la “sinistra italiana” che rappresentava la stragrande maggioranza del partito.

 

Vi si legge:

 

II Congresso di Livorno, la scissione avvenuta al Congresso di Livorno, furono riallacciati al II Congresso, alle sue 21 condizioni, furono presentati come una conclusione necessaria delle deliberazioni “formali” del II Congresso.
Fu questo un errore e oggi possiamo valutarne tutta l’estensione per le conseguenze che esso ha avuto. In verità le deliberazioni del II Congresso erano l’interpretazione viva della situazione italiana, come di tutta la situazione mondiale ma noi, per una serie di ragioni, non muovemmo, per la nostra azione, da ciò che succedeva in Italia, dai fatti italiani che davano ragione al II Congresso, che erano una parte e delle più importanti della sostanza politica che animava le decisioni e le misure organizzative prese dal II Congresso: noi, però, ci limitammo a battere sulle questioni formali, di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti, perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque noi avessimo dalla nostra parte l’autorità e il prestigio dell’Internazionale che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati.
Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costruttivi del PSI, non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile ad ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni 1919-20: non abbiamo saputo dopo Livorno porre il problema del perché il Congresso avesse avuto quella conclusione, non abbiamo saputo porre il problema praticamente, in modo da trovarne la soluzione, in modo da continuare nella nostra specifica missione che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato. Fummo — bisogna dirlo — travolti dagli avvenimenti, fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana, diventata un crogiuolo incandescente dove tutte le tradizioni, tutte le formazioni politiche, tutte le idee prevalenti si fondevano qualche volta senza residuo: avevamo una consolazione, alla quale ci siamo tenacemente attaccati, che nessuno si salvava, che noi potevamo affermare di avere previsto matematicamente il cataclisma, quando gli altri si cullavano nella più beata e idiota delle illusioni.
Siamo entrati, dopo la scissione di Livorno, in uno stato di necessità. Solo questa giustificazione possiamo dare ai nostri atteggiamenti, alla nostra attività dopo la scissione di Livorno; la necessità che si poneva crudamente, nella forma più esasperata, del dilemma di vita o di morte.

 

Come si vede, Gramsci nell’assumere la responsabilità della direzione del partito era tormentato da una duplice preoccupazione, quella di aprire le porte del partito a nuclei ed elementi del PSI che poi si ridusse all’entrata dei “terzini” (qualche caporale e pochi soldati) che non si assimilarono, se non formalmente, alle idee, ai metodi e soprattutto alla dura disciplina del partito, e l’altra, ancora inconfessata, di sradicare il sistema di organizzazione territoriale che gli impediva una seria e, per la sua politica, indispensabile penetrazione alla base dell’organizzazione tuttora legata politicamente e sentimentalmente alle posizioni della sinistra.

 

Spezzare l’ossatura monolitica e fortemente accentrata del partito della classe proletaria voleva dire ridurla ad un aggregato di cellule aperte al processo molecolare delle categorie socio-economiche; viveva in ciò e si sostanziava la stridente contraddizione che fa da filo conduttore a tutta la problematica gramsciana basata sul concetto di una egemonia che include in sé, contraddittoriamente, le tendenze al pluralismo che nella pratica postulano supporti, alleanze, compromessi per il puerile timore di sentirsi soli di fronte ad un nemico di classe che sopravvalutava, insomma un Gramsci tattico imbrigliato tra egemonia e il suo contrario.

 

Non aveva già definito che:

 

il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione [della dittatura del proletariato — nda] che realizza l’unità della classe lavoratrice, dà alle masse una coesione e una forma che sono della stessa natura della coesione e della forma che la massa assume nella organizzazione generale della società […] un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che […] afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice della storia. [?]
Nell’organizzazione per fabbrica si incarna dunque la dittatura proletaria, lo stato comunista che distrugge il dominio di classe nelle super-strutture politiche e nei suoi ingranaggi generali.

 

Gramsci, L’Ordine Nuovo, n. 21 ottobre 1919

 

Questo riferimento ad una egemonia ideologica e politica dei Consigli, o meglio del futuro Stato dei Consigli, che non si piega ad alcun condizionamento tattico, nella I serie dell’Ordine Nuovo (1919-1920) trova la sua più ampia e originale manifestazione. La fase, certo, del Gramsci migliore pur con le sue remore e le influenze soreliane [1] che ne inficiano la chiarezza e la fedeltà rispetto alla ideologia rivoluzionaria del marxismo.

 

 

 

[1] Le influenze del pensiero di George Sorel.


La gestione gramsciana del partito



Riguardo la situazione determinatasi con il delitto Matteotti che costituì allora il banco dì prova per la linea politica delle due maggiori componenti del partito (Sinistra e Centro) attestate su posizioni diametralmente opposte nel giudicare gli avvenimenti e gli obiettivi su cui indirizzare l’azione del partito stesso, ripubblichiamo l’articolo, Dopo Matteotti, apparso su l’Unità del gennaio 1926 firmato O. Damen.

 

La crisi Matteotti

 

In questo periodo pare che i partiti politici abbiano mostrato più capacità a risolvere per via di ragionamento le più complesse posizioni teoriche, che risolvere o tentare di risolvere, nell’azione, favorevolissime situazioni politiche. Ed è evidente; allorché gli uomini, come i partiti, mancano agli scopi che si sono prefissi e che rappresentano la loro ragion d’essere, si riducono quasi sempre a teorizzare le ragioni della sconfitta e delle deficienze le quali, di punto in bianco, diventano ragioni di avvedutezza, di buon senso se non addirittura di vittoria.

 

È quanto è avvenuto dopo Matteotti, nel duello fittizio tra dittatura e democrazia prima; tra dittatura e liberalismo poi, nel duello reale sempre esistente, sempre più acuto, tra borghesia e proletariato.

 

Cerchiamo di spiegarci come e perché un periodo di lotta estremamente acuta tra questi due veri e naturali antagonisti della storia si sia potuto trasformare — badate bene — non nella realtà rivoluzionaria della situazione e nei reali rapporti di forza allora esistenti, ma nelle elucubrazioni dei filosofi del pessimismo e dell’impotenza, in un periodo “democratico”, perché caratterizzato dall’orientamento delle grandi masse verso i partiti della democrazia.

 

Errori di valutazione ed errori di metodo ne troveremo a iosa, checché ne dicano i difensori di se stessi e della Centrale.

 

La politica della Centrale del nostro partito dopo il delitto Matteotti non ha avuto come mira un’azione autonoma di Partito né una soluzione proletaria e rivoluzionaria della crisi ma ha agito per favorire una soluzione di centro, borghese, a carattere antifascista.

 

Il nocciolo del problema tattico è tutto qui, come qui è la ragione essenziale della nostra recisa opposizione. Per noi il delitto Matteotti rompe in modo netto i rapporti di forze precedentemente esistenti: il fatto è così grave e avviene in un momento così intenso, così acuto della vita politica italiana che tutti, indistintamente uomini politici, partiti politici e masse, sono presi come da un senso profondissimo di smarrimento e di panico.

 

In questa fase tipica in cui la chiaroveggenza e l’audacia possono e quasi sempre riescono a dare qualche orientamento, è per lo meno arbitrario subordinare l’azione di un partito rivoluzionario al fatto di fissar prima i rapporti delle forze organizzate di classe. Chi ragiona così dimostra di essere più atto al sillogismo che a dirigere le forze della rivoluzione.

 

D’altronde, quali sono gli elementi per poter fissare i rapporti delle classi organizzate? Vediamo: a delitto avvenuto il partito fascista è paralizzato da tale avvenimento imprevisto: le sue forze si sfaldano; l’opinione pubblica, fino al giorno prima solidale o passivamente solidale con esso, lo isola, quasi con ostilità; il centro dirigente fascista è incapace a mobilitare la resistenza; il governo si sente perduto e patisce.

 

Nel paese, allo stato iniziale di smarrimento subentra un vago senso di aspettazione. La stampa, il chiodo fisso nel cervello del compagno Gramsci, con la campagna scandalistica alimenta inconsciamente uno spirito rivoltoso. Fino a questo momento non si può ancora parlare di vere e proprie forze politiche predominanti nel paese o comunque di orientamenti politici. Tutto è pervaso da spirito antifascista ed è in istato di formazione e di sviluppo un vasto movimento di forze capaci di lottare. Chi primo plasmerà queste forze? Quale ne sarà l’indirizzo?

 

In questo momento nessun partito ha osato lanciare la parola d’ordine dell’azione. La stessa Centrale del nostro partito si è servita di un impreciso incitamento all’azione, fatto a scopo polemico, ma non ha neppure tentato di iniziare una vera e propria mobilitazione delle masse.

 

All’infuori di qualche riuscito movimento sporadico, sprigionato più dalla situazione locale e dalla maggiore sensibilità delle masse di alcune zone, che avvenuto per effetto di ordini impartiti dall’alto, la Centrale ha dimostrato chiaramente di non saper vivere la vita delle grandi masse, non ne ha comprese le necessità, non ha sentito quale fosse l’imperativo categorico dell’ora, ha dimostrato, in sostanza, di essere qualcosa di avulso persino dal resto del partito.

 

Esisteva in tale epoca un partito comunista come forza inquadrata? Certo è che si era in un periodo di ripresa e di riorganizzazione; ma ciò che più lasciò a desiderare, ciò che fu maggiormente condannabile nei compagni della Centrale, fu l’assenza non del partito, come entità numerica più o meno solidamente organizzata, ma di tutti quegli organismi sussidiari senza i quali un partito comunista non può né potrà mai adempiere alla propria funzione storica di partito rivoluzionario. In ultima analisi il difetto di una seria azione nel paese, subito dopo il delitto Matteotti, i centro-destri la attribuiscono alla mancanza di un partito rivoluzionario fortemente organizzato e quindi alla proporzione esistente nei rapporti di forza tra i partiti della conservazione ed il partito della rivoluzione.

 

È da questa premessa erratissima che si parte per vedere la situazione con occhio diverso, per applicare una politica diversa e per iniziare e giustificare una manovra che si è dimostrata opportunista. È in base a tale premessa che si proclama essere la situazione “democratica” e che perciò il problema immediato del partito è problema di organizzazione e non di azione.

 

Con estrema facilità si deduce da un superficiale e cerebralissimo esame della situazione politica un certo pacifismo delle masse e tra l’insurrezione proletaria e l’Antiparlamento borghese non si sa vedere, tra i compiti immediati dell’unico partito di classe, che un semplicistico problema organizzativo e… la solita mitica conquista della maggioranza.

 

D’altronde poteva, o meglio, doveva il nostro partito porsi senz’altro il problema dell’insurrezione immediata per la conquista del potere? Ci si è domandato. Nessuno della sinistra ha mai pensato di rimproverare la Centrale di non aver fatto… la rivoluzione. Non è così d’altronde che va posto il problema e ripetiamo: tra l’insurrezione e la manovra politica effettuata, poteva e doveva essere sviluppata dalla Centrale un’azione autonoma di partito che permettesse di marcare in modo netto i due raggruppamenti politici veramente in contesa (borghesia conservatrice — proletariato rivoluzionario) e consentisse la polarizzazione verso queste due sole entità economico-politiche della società moderna, le forze vive e operanti del paese, messe in moto ed esasperate al massimo dal delitto Matteotti.

 

Seguiamo invece le tortuosità tattiche della Centrale la quale, per suo uso e consumo, ha saputo così bene suddividere la borghesia in classi e sottoclassi, in specie e sottospecie; in buoni, meno buoni e reprobi, da ridurre il metodo di indagine marxista ad una esemplare pagina di… storia naturale.

 

L’inerzia delle masse nel paese, voluta di fatto anche dalla Centrale del nostro partito, ha permesso lo svilupparsi di una manovra dei partiti borghesi di centro su di un terreno diverso da quello del paese, il terreno parlamentare.

 

Ancora una volta, in una situazione rivoluzionaria, non è l’azione della massa a determinare una soluzione, ma sono i partiti politici, o meglio, le direzioni, i direttori, gli esecutivi, ecc. dei partiti (pratica socialdemocratica) che si servono dello scacchiere di Montecitorio come base di manovra per limitare o paralizzare del tutto l’influenza delle masse.

 

Ed è su questo terreno caratteristico — ripetiamo — della pratica socialdemocratica, che è scivolata anche la nostra Centrale. A delitto avvenuto,

 

l’ondata popolare antifascista trovò una forma politica nella secessione dall’aula parlamentare dei partiti di opposizione. [1]

 

E la Centrale dispone che il gruppo parlamentare si accodi al movimento delle opposizioni borghesi-socialdemocratiche.

 

E perché la Centrale subisce così tacitamente la manovra aventinista? Sentite il perché: è una ragione politica di importanza capitale:

 

L’assemblea delle opposizioni divenne di fatto un centro politico nazionale intorno al quale si organizzò la maggioranza del paese; la crisi scoppiata nel campo sentimentale e morale acquistò così uno spiccato carattere istituzionale; uno Stato fu creato nello Stato: un Governo antifascista contro il Governo fascista.

 

E più avanti:

 

Le opposizioni rimangono ancora il fulcro del movimento popolare antifascista; esse rappresentano politicamente l’ondata di democrazia che è caratteristica della fase attuale della crisi sociale italiana. Verso le opposizioni sì era orientata all’inizio anche l’opinione della grande maggioranza del proletariato. [1]

 

Chi è quell’operaio comunista che non veda oggi in tutto ciò, più che una esagerazione e più che un artificio, un grave ed imperdonabile errore di valutazione politica?

 

Antonio Gramsci, in settembre, diagnostica per la Centrale la situazione italiana con lo stato d’animo di colui che ha paura del gravissimo malessere sociale, che analizza e non trova un rimedio se non cullandosi tra le risorgenti velleità democratiche della piccola borghesia. Sarebbe bene che la Centrale ristampasse questa relazione e la ponesse tra i documenti in distribuzione per la preparazione del Congresso del Partito.

 

Per conto suo la sinistra ha già detto che cosa pensava e che cosa pensa circa la nostra uscita dal parlamento, sulla nostra entrata nel comitato delle opposizioni e sulla ormai “barbosa” proposta dell’Antiparlamento.

 

Per noi è pacifico, come dovrebbe essere pacifico per tutti i marxisti non degeneri, il fatto che la borghesia, in una situazione gravissima, davanti al pericolo reale della propria esistenza come classe dirigente e privilegiata possa, debba anzi, giocare con dei diversivi per la propria conservazione.

 

E in questo caso i diversivi politici della classe dirigente in pericolo sono quelle tali concessioni su cui si adagiano naturalmente strati di masse apparentemente (solo apparentemente) differenziate dalla stessa classe che dirige di fatto la manovra.

 

Nel caso specifico, la borghesia fascista, visto il serio pericolo del diretto intervento del proletariato nella lotta, ha manovrato di fianco con le forze, con le proprie forze della piccola borghesia, le quali sono così sfociate sulla nuova piattaforma politica (secessione parlamentare — Aventino) con l’impudente maschera della democrazia e sbandieranti l’offa della “questione morale”, prima ancora che le masse proletarie avessero potuto orientarsi dietro una parola d’ordine chiara e una precisa linea politica tracciata dal Partito rivoluzionario di classe. Parola d’ordine non lanciata, linea politica non indicata, solo perché la Centrale del Partito non credeva o meglio non vedeva la necessità dell’intervento del terzo fattore: il proletariato, e alla iniziativa di classe preferiva la presenza nel comitato delle opposizioni per un lavoro di critica e di sbloccamento.

 

Quindi la Centrale del Partito, così agendo, ha condotto le sue forze nel momento più propizio non alla lotta ma le ha adagiate sul terreno comodissimo offerto dalla stessa borghesia. E questo per noi è opportunismo, non dissimile da quello del Partito Massimalista.

 

Andiamo ora alla proposta dell’Antiparlamento.

 

La secessione parlamentare è avvenuta per una questione morale. La questione morale è stata la ragion d’essere di tutta la politica dell’Aventino. La proposta comunista dell’Antiparlamento si innestava perciò in questa pregiudiziale morale. L’Aventino non è mai partito, nella lotta contro il fascismo, da una ragione di classe, non poteva: non era d’altronde con una pregiudiziale di classe che la Centrale del Partito Comunista ha manovrato dentro e fuori dal comitato delle opposizioni.

 

Gramsci ebbe persino ad affermare in una riunione di gruppo, che il partito sarebbe ritornato a far parte del blocco delle opposizioni solo se si fosse accettato il criterio di dare all’Aventino come base di funzionamento il semplice regolamento della Camera dei deputati.

 

E madornale ciò ma è perfettamente logico per Gramsci: non vedeva egli nell’Aventino l’episodio decisivo della crisi a carattere istituzionale? Lo Stato nello Stato? Il Governo antifascista contro il Governo fascista? Riuscire perciò a far funzionare, in un modo qualsiasi questa specie di Antiparlamento, doveva essere l’obiettivo massimo, rivoluzionario, dei tattici della Centrale del Partito.

 

Noi modestamente osserviamo. I comunisti non partono mai da pregiudiziali morali nella lotta contro la borghesia. Nel caso specifico del delitto Matteotti i comunisti dovevano partire da un presupposto di classe e non cercare di far propria la questione morale e tanto meno porsi sul terreno offerto da una tale pregiudiziale.

 

È in base a questa erronea valutazione politica che i comunisti entrarono nel Comitato delle Opposizioni e ne uscirono senza neppure battersi per una vera e sana questione di principio, ed infine proposero ed insistettero nella proposta dell’Antiparlamento.

 

L’Aventino è la sintesi politica di tutta una manovra conservatrice e alla sua base sono gli interessi specifici della controrivoluzione: esso è un aspetto della strategia borghese che si serve di un apparente dissidio interno, che fa dello scandalo, che esce e non ritorna per uno spazio di tempo nel parlamento legale per una “visione” e non per una “realizzazione” democratica. E la valvola di sfogo che deve risolvere la crisi in senso borghese. Ve lo immaginate allora, un Aventino trasformato per opera della nostra Centrale in Antiparlamento e con obiettivi insurrezionali? Entrare nell’Aventino o lavorare attorno ad esso per attirare a noi nuovi strati di masse?

 

La prima parte del presente articolo risponde esaurientemente a tale quesito. Il cavallo di Troia è una figura di mito buona per delle esercitazioni letterarie; ma proprio dobbiamo figurarcelo qualche “leader” del partito, aggrappato malamente ad un alquanto monotono cavallo, di ritorno, marciante nel campo nemico, con nel ventre lo specifico infallibile della rivoluzione bolscevica? Bando all’ironia, ma è per lo meno arbitrario attribuire alla “saggia” manovra che è culminata nella proposta dell’Antiparlamento, il fatto che strati sempre nuovi del proletariato si siano in quel periodo orientati verso il nostro partito.

 

Solo la eccezionalità del momento politico ha permesso lo spostamento di strati di masse verso l’unico Partito del proletariato. E se a questo spostamento sensibile di forze non è seguito il concretizzarsi di una qualsiasi esperienza, di una qualsiasi conquista operaia, lo si deve esclusivamente al gravissimo errore tattico della Centrale attuale che ha guardato più ai centri parlamentari che al paese.

 

La sopravvalutazione delle forze di centro per una soluzione di centro borghese a carattere antifascista voleva, se non la eliminazione, la attenuazione certa dell’intervento diretto e autonomo del proletariato. Così è avvenuto.

 

Ed ecco una delle ragioni del nostro profondo dissenso. [2]

 

Ecco come Togliatti, che aveva vissuto da dirigente del partito, tali avvenimenti li sintetizza non certo da politico ma da cronista, solito a vedere dall’esterno senza calare nel vivo degli accadimenti, e non da protagonista:

 

La tattica intelligente ed ardita del Partito Comunista dopo l’uccisione di Matteotti, tattica dettata da Gramsci in tutti i particolari, l’uscita dal parlamento insieme coi gruppi dell’opposizione democratica subito dopo il delitto, l’intervento nell’assemblea delle opposizioni con la proposta di proclamare lo sciopero generale per cacciare il fascismo dal potere [proposta respinta con orrore dai capi democratici che volevano rovesciare il fascismo astenendosi dai lavori parlamentari e con una campagna di stampa! — nda]; le successive proposte di organizzazione di un “antiparlamento” delle opposizioni e dello sciopero fiscale dei contadini e, infine, il ritorno dei comunisti nell’aula parlamentare per denunciare dalla tribuna del parlamento i delitti del fascismo e la dimostrata impotenza degli antifascisti democratici e liberali fu la parte più importante di questa azione politica.
Questa tattica, basata sul principio, leninista e stalinista, secondo il quale bisogna dirigere le masse attraverso la loro esperienza mentre poneva i comunisti all’avanguardia nella lotta per vendicare i delitti del fascismo e rovesciare la dittatura fascista, facilitava il distacco di vasti strati di lavoratori dai partiti democratici e dalla socialdemocrazia, gettava le basi dell’alleanza tra il proletariato e i contadini, faceva uscire il partito dall’isolamento e lo spingeva sulla via della trasformazione in partito di massa.

 

Tattica veramente intelligente e ardita, soprattutto ardita.

 

La verità è che si era talmente traumatizzati dalla semilegalità concessa, bontà sua, dal regime, da non accorgersi d’essere seduti su una immensa polveriera di risentimento popolare, formatasi nel tempo per accumulo spontaneo di soperchierie, prepotenze, offese della personalità umana oltre che politica e violenze d’ogni sorta che umiliavano, fino a invigliacchire, e che bastasse accendere un fiammifero perché tutto saltasse in aria, ma nessuno ha osato accenderlo e neppure pensato che si potesse accendere. Gramsci, particolarmente, pensava che se un processo di combustione fosse in atto, esso dovesse esplodere per processo spontaneo. Se questo non si è verificato, non era da farne colpa al centro del partito.

 

Tatticismo deteriore

 

Siamo al biennio 1924-25, così pieno di avvenimenti da assumere particolare importanza nello sviluppo ulteriore del movimento operaio. Con la rimozione, imposta dall’alto, della sinistra italiana dalla responsabilità di guida del movimento comunista italiano, nuove forze direttive più flessibili, più disposte al compromesso, si fanno avanti, i cui esponenti: Gramsci, Togliatti, Terracini, Scoccimarro, erano pure stati con la sinistra nella fase formativa del Partito Comunista d’Italia. E parlando di nuova direzione non si fa che precisare posizioni e responsabilità che si riferiscono soprattutto all’opera e al pensiero di Gramsci; intendiamoci, non un Gramsci mitizzato, ma un Gramsci uomo, uomo che ha vissuto le nostre stesse esperienze, anche se osservate da un angolo visuale del tutto personale, ciò che non salva Gramsci dalla precisa accusa di avere aggiogato il partito alle esigenze non di una autentica internazionale rivoluzionaria ma a quella di una politica contingente dello Stato russo, anche se operaio.

 

Il primo sintomo del nuovo orientamento gramsciano è apparso nell’editoriale che dà inizio alla seconda serie de l’Ordine Nuovo, quando cioè, Gramsci, rivedendo criticamente l’opera compiuta a Imola e a Livorno, arriva alla conclusione che il taglio a Livorno era stato operato troppo a sinistra, conclusione per lo meno impensabile in un uomo che aveva partecipato responsabilmente a Imola e Livorno e che aveva dato la sua responsabile collaborazione alle Tesi di Roma; conclusione, quindi, a sfondo opportunistico in quanto non preparata da una sua adeguata e approfondita revisione critica e da un necessario riesame degli accadimenti che hanno preceduto Livorno. E a proposito di tagli, va ricordato che di fronte alla stessa operazione tattica era convincimento della sinistra che il taglio, a Livorno, fosse stato operato troppo a destra. Questa diversa valutazione implica già una visione tattico-strategica difforme che divide il centro del partito già alla sua origine.

 

Si tratta forse di un ritorno puro e semplice al dannato tatticismo dei partiti socialdemocratici o non piuttosto di un ripiegamento tattico dettato in ogni caso da un uguale ripiegamento teorico che il Comintern aveva imposto sotto la spinta di mutate situazioni oggettive e che aveva per obiettivo immediato la politica del fronte unico?

 

I “terzini”

 

Per la nuova direzione del partito e quindi per l’esecutivo dell’Internazionale, il problema del momento era quello di guadagnare spazio a destra; di potenziare la politica del partito allargando innanzitutto la propria sfera d’influenza in quella nebulosa politica che si era costituita in frazione terzinternazionalista che dal seno del Partito Socialista mirava a tracciare un ponte ideale verso l’Internazionale comunista e, per conseguenza, verso il nostro partito. Si stava per realizzare così l’obiettivo gramsciano di rimediare al taglio troppo a sinistra voluto dalla corrente di sinistra allora dominante nel partito.

 

Perché abbiamo parlato di nebulosa politica riferendoci alla frazione capitanata da Serrati, Maffi, Riboldi, Malatesta, ecc. nutrito gruppo di generali senza soldati, non disponendo essi di una seria organizzazione tale da potersi caratterizzare come vera e propria frazione?

 

I “terzini” non portavano e non potevano portare una loro particolare e compiuta e originale elaborazione teorica dei problemi della rivoluzione; non disponevano di una forza apprezzabile di base, si riducevano ad alcuni quadri parlamentari e dell’apparato politico e sindacale del Partito Socialista. Nel complesso si trattava di un raggruppamento senza storia, di scarso rilievo ideologico, soprattutto di scarsa importanza organizzativa. Tuttavia è significativo il fatto che la maggiore preoccupazione dei terzini era quella di accampare il diritto ad una loro rappresentanza negli organi direttivi del partito. Indicativi a questo proposito il fervore e le manovre sotterranee con cui Fabrizio Maffi, uno degli esponenti del movimento, tendeva a varare la candidatura di Malatesta alla segreteria del partito; evidentemente miravano molto in alto, dopo che erano riusciti ad assicurare la loro presenza negli organi federali di tutta l’organizzazione del partito e alla direzione del movimento sindacale.

 

Quando rotture organizzative, come questa dei terzini, si determinano e non sono originate da profonde insanabili lacerazioni di ordine ideologico non rispondenti a condizioni obiettive di maturazione reale, e soprattutto quando non avvengono per uno scontro frontale sul diverso modo di concepire i problemi di fondo dell’ideologia e della tattica politica, quasi sempre si palesano come fratture infeconde e appesantiscono sempre, quando non contaminano, l’organismo verso cui questi gruppi scissionisti si dirigono. Era necessario porre un particolare accento sull’uscita dei terzo-internazionalisti dal Partito Socialista e sul loro ingresso nel partito per riconfermare oggi, a distanza di tempo, la esattezza dell’impostazione data dalla sinistra al problema in genere, delle adesioni ad un partito rivoluzionario che può essere così sintetizzata: processo selettivo; decantazione di residue incrostazioni dal punto di vista ideologico; assoluta adesione ad una disciplina rivoluzionaria, soprattutto necessità di frantumare nella sua entità organizzativa quel dato raggruppamento che si orientasse verso il partito rivoluzionario.

 

Gramsci si è fatto allora esecutore fedele di una politica tale e quale veniva o ispirata, o dettata dal Comintern. E questo va detto non ad elogio della sua personalità politica e della sua duttilità manovriera. Comunque Gramsci, preso il nuovo indirizzo, ha assunto la responsabilità di imporlo al partito; ma va constatato che il Partito Comunista nel biennio in esame, ha sì un organo direttivo, anche se per investitura, ma senza una base, soprattutto senza una base che avesse capito il perché del nuovo indirizzo imposto al vertice del movimento; una base ancora legata, nella sua maggioranza, alla tradizione di sinistra.

 

L’apparato

 

Esaminiamo ora il problema dell’apparato. È nella normale strategia politica di gruppo e di corrente tendere ad impossessarsi dell’organizzazione del partito, attraverso il controllo del suo apparato. Per Gramsci e per la nuova direzione il problema immediato e fondamentale era dunque quello di impossessarsi dell’apparato del partito attraverso il quale ramificarsi alla base dell’organizzazione. Tuttavia le decisioni prese al Convegno di Pian del Tivano (Como) e il carattere ideologico-politico impresso alla nostra affermazione nelle elezioni del 1924 indicavano che il partito si muoveva ancora sulla sua struttura originaria, sulla piattaforma elaborata dalla sinistra italiana. E questo, Gramsci, lo capiva esattamente, lui che aveva assai vivo il senso realistico della situazione; si trattava di un avvertimento assai valido per non vedere in tutta la sua urgenza la necessità di conquistare l’apparato. E come effettuare tale conquista? O si usa l’arma ideologica, e ciò comporta in ogni caso un processo lunghissimo di persuasione, un aperto dibattito ideologico-politico con le forze contro cui si vuol operare, e infine, conquistarsi la fiducia; oppure c’è l’altro sistema, quello amministrativo, che consiste nel far sentire sugli uomini dell’apparato il peso della responsabilità politica che, mentre assicura la continuità professionale, allontana il pericolo per un rivoluzionario di professione, di dover dare da un momento all’altro alla propria vita una diversa sistemazione economica. L’apparato assume così la parvenza di un mito che non ha nome; di una organizzazione economico-politica sfuggente, occultata quasi sempre dietro la cortina fumogena del privilegio di casta; di una corporazione di manovalanza politica che non si precisa mai in una fisionomia e si propaga e allunga i tentacoli come una piovra fino ad assumere un proprio costume di vita che viene a caratterizzarlo e a distinguerlo dal resto della stessa organizzazione di partito.

 

Gli apparati che oggi conosciamo nella veste di forze onniscienti, onnipresenti e onnipotenti, hanno avuto origine proprio allora, nel 1924. Il rivoluzionario professionale il più delle volte è un compagno che ha avuto una dura esperienza di lotta, che si è forgiato al lume di una dura disciplina ideologica e politica, un compagno che ha conosciuto di persona che cosa vuol dire sacrificio, tuttavia è proprio lui destinato a diventare l’uomo dell’apparato e, come tale, costretto ad obbedire professionalmente e quindi ciecamente a tutti gli imperativi che provengono dal centro del partito, qualunque essi siano. Di questo potente strumento, nato dal coagulo di “certi” uomini e di “certi” interessi, il centro del partito si avvale per toccare la base e per muoverla secondo le necessità subiettive e obiettive della sua politica.

 

Intanto la nuova direzione porta avanti l’opera di scardinamento della tradizionale organizzazione del partito. In questo frangente, nel cuore del 1924, esplode l’episodio Matteotti. L’eliminazione violenta di Matteotti è l’espressione della profonda crisi che ha investito nei suoi gangli vitali lo schieramento del capitalismo italiano e non esistendo la possibilità obiettiva di operare apertamente nel paese, la politica allora era paralizzata nel solo ambiente parlamentare, è su questo piano che bisogna osservare e giudicare l’azione delle forze politiche sommosse dalla crisi. Si tratta di una crisi che vien su dal basso, dal seno delle grandi masse nelle quali l’avversione al fascismo, il profondo disagio economico e l’ansia per un ribaltamento generale e radicale della situazione stavano toccando il limite di rottura. La biscia della reazione stava rivoltandosi all’incantatore colpendo al vertice lo stesso fascismo tanto che Mussolini riteneva l’operazione Dumini come ispirata da forze interne al regime che miravano alla sua stessa eliminazione. In realtà l’episodio Matteotti si inquadrava in una situazione di fatto nella quale episodi del genere potevano determinarsi in qualsiasi momento e a danno di chiunque che non fosse fascista, tale era lo stato di precarietà e di smarrimento incombente sugli organi del regime.

 

L’Aventino

 

Era nella logica delle cose che a questo punto i partiti antifascisti, democratici, liberali, socialisti, che erano di fatto più vivi sul piano della lotta parlamentare che nel paese, attraverso una rete di cospirazione attiva per una soluzione di forza, prendessero la via dell’Aventino ritenendo incompatibile la loro ulteriore permanenza nel parlamento il cui governo, identificato nella persona di Mussolini, portava la responsabilità morale dell’assassinio di Matteotti. Con l’Aventino si veniva così a creare, almeno sul piano costituzionale, uno Stato nello Stato, una specie di separatismo politico con conseguente vuoto di potere in cui il partito avrebbe potuto inserire e sviluppare una iniziativa di classe se gli amori aventiniani prima e quindi la indecisione sul da farsi, non l’avessero impedito.

 

Ma l’Aventino si è dimostrato tale e quale era e doveva essere per sua natura, un coagulo di forze protestatarie; si riunisce, discute, decide una attività di violenta denuncia ma rifiuta coscientemente il ricorso alla piazza perché questa, degenerando, potrebbe passare nelle mani dei comunisti. Non dunque ricorso alle masse operaie ma all’esercito e alla polizia. Gli strateghi dell’Aventino ponevano al centro della propria politica la Corona; la polizia e l’esercito si sarebbero mossi se la Corona si fosse mossa. Ma la Corona non si è mossa e con essa non si è mosso l’esercito, non si è mossa la polizia. È rimasta all’Aventino la pretesa di dirigere lo stato ipoteticamente liberale al di fuori della dura realtà dello stato fascista.

 

Che cosa intanto fa il Partito Comunista? Il gruppo parlamentare in obbedienza alle decisioni della direzione del partito si rifugia anch’esso, in un primo luogo, sull’Aventino. Posti di fronte, bruscamente, ad una situazione non prevista i dirigenti hanno scelto la solita soluzione tattica: andiamo sull’Aventino così come andremmo ad una riunione di fronte unico; per loro era una politica di fronte unico andare sull’Aventino.

 

Ma a un certo momento, anche qui le disparità di vedute non potevano non esplodere. L’Aventino socialdemocratico, liberale e socialista mal sopporta che la pedina comunista operi nel suo seno perché non conforme ai metodi ed ai fini costituzionali dell’Aventino stesso.

 

In questo rapido susseguirsi di avvenimenti bisogna riconoscere che mentre le forze coalizzate dell’Aventino avevano, se non altro, capito che la loro fortuna politica risiedeva unicamente nell’uso dei metodi legali offerti loro dalla possibile convergenza tra conservazione democratico-liberale e tradizione monarchica e agivano conseguentemente, il Partito Comunista annaspava tra legalitarismo parlamentare e fraseologia massimalista. Se da una parte la direzione gramsciana subiva la suggestione della questione morale che l’Aventino avanzava come sufficiente a liquidare Mussolini e con lui il fascismo, dall’altra subiva passivamente l’iniziativa della sinistra del partito che si dissociava dalla politica della partecipazione all’Aventino e demistificava di fatto la questione morale con il discorso di Ruggero Grieco elaborato non sotto il controllo della direzione del partito, ma in casa di Bordiga e per sua diretta ispirazione.

 

Aumenta intanto la pressione dal basso delle masse, soprattutto del partito, che chiedono una posizione responsabile; nel contempo si insinua anche nel gruppo parlamentare la tesi dell’antiparlamento; era soprattutto il buon Riboldi che si affannava a sostenere la legittimità legale e politica dell’antiparlamento, intendendo fare di esso una piattaforma di lotta parlamentare a cui chiamare le forze dell’opposizione aventiniana.

 

Rimanere agganciati ancora a soluzioni parlamentari, significava allora non avere sentito la spinta che proveniva dal paese; tanto in sede di gruppo parlamentare come in sede di Comitato Centrale allargato, la sinistra ha sostenuto una visione tattica e strategica diametralmente opposta che comportava lo spostamento dell’asse dell’azione del partito dal parlamento, dal centro cioè della vita politica nazionale, al paese, alle masse operaie, suscitando con tale prospettiva di lotta indifferenza, incomprensione, quando non ironia.

 

Secondo i compagni della nuova direzione e dello stesso gruppo parlamentare, i compagni della sinistra erano dei presuntuosi, dei barricadieri, vedevano sempre rosso e si illudevano di poter spostare l’asse della politica basando la prospettiva non sul concreto, non sulle possibilità obiettive, ma sul nulla.

 

In una riunione del Comitato Centrale allargato Gramsci diceva, a conclusione di un ampio e dettagliato esame, che la situazione non era immediatamente rivoluzionaria e che se la sinistra avesse lanciato una parola d’ordine di azione rivoluzionaria, anche la parte più sana del proletariato non l’avrebbe ascoltata; a comprova di questa sua tesi ricordava che in conseguenza della guerra milioni di fucili erano rimasti in mano agli italiani e se i fucili non sparavano voleva dire che non c’era una prospettiva rivoluzionaria. Oh se i fucili potessero sparare da soli!

 

Chi in questo periodo aveva contatti organizzativi con la base del partito sa che da ogni parte del paese, particolarmente dalle zone meridionali, giungevano notizie di una situazione che si aggravava di giorno in giorno per cui esistevano possibilità enormi per imprimere all’azione del partito una prospettiva di soluzione di classe di immediatezza rivoluzionaria; è mancata l’audacia di un inserimento del partito in una situazione di crisi di tale gravità per vedere nel vivo fino a che punto ci fosse coincidenza tra l’esame che veniva fatto della situazione e la rispondenza delle masse italiane, ma nessuno ha avuto chiaroveggenza e coraggio di tentare.

 

Viene finalmente deciso il rientro del gruppo parlamentare con un’altra “trovata” tattica, quella di mandare allo sbaraglio Repossi, a cui era demandato il compito di leggere una dichiarazione prefabbricata di tono demagogico e in parte provocatorio, anche se gli estensori del documento sapevano molto bene che in quella situazione sarebbe stata follia assumere la responsabilità di un secondo episodio Matteotti. Quando poi si è tentato, su iniziativa del partito, lo sciopero generale in polemica con la CGIL, con l’Aventino e in modo particolare con il Partito Socialista, era evidente che si sarebbe andati incontro ad un inevitabile insuccesso.

 

Gramsci e la politica del fronte unico

 

In tal modo entrava in crisi la tanto decantata tattica del fronte unico dal basso. Le masse operaie legate per tradizione al loro organismo sindacale e al loro partito politico non sono generalmente diposte ad accettare inviti ad azioni dirette che provengono da altre organizzazioni se non è chiaro alla loro coscienza che la loro organizzazione sindacale e il loro partito si sono posti apertamente al di fuori del solco di classe e in contrasto fondamentale con i loro interessi e con gli obiettivi finali della loro lotta. A questo scopo nessuna opera di convincimento, nessun approfondimento critico erano stati seriamente intrapresi dal Partito Comunista presso le masse sindacate e quelle più politicizzate del Partito Socialista; soprattutto nessuna parola d’ordine era stata lanciata che precisasse il vero volto della crisi che aveva praticamente inchiodato il regime in uno stato di impotenza, incapace persino di mobilitare le sue stesse forze armate in quantità sufficiente per organizzare una qualsiasi difesa se una iniziativa di attacco armato si fosse determinata in quel momento in qualsiasi punto del paese.

 

Situazioni simili non si approfondiscono previa intesa di vertice, tipiche della politica di fronte unico, ma vanno affrontate tempestivamente con forze e strumenti idonei per qualità e chiarezza d’intenti a prescindere da valutazioni del tutto quantitative che sono quasi sempre in funzione ritardatrice e tarpano le ali all’azione rivoluzionaria. Sono queste, infatti, le iniziative della strategia rivoluzionaria che aprono la strada ad allargamenti del fronte della lotta, spostando in avanti strati nuovi di combattenti ed accendono volontà nuove che non entrano nel calcolo degli strateghi parlamentari e di certi capi partito che attendono… che i fucili sparino da soli.

 

In tante manovre tattiche senza né capo né coda che trovano la base teorica nella legge delle spontaneità più che in una costante della metodologia marxista, è evidente il diverso modo di esaminare la situazione e le forze sociali e politiche che in essa si muovono tra la corrente assai omogenea della sinistra e quella che si è andata formando, in modo alquanto estemporaneo e privo di ogni seria unità ideologica, attorno alla personalità di Gramsci.

 

In questo contesto il problema di fondo prende forma e sostanza nella diversa interpretazione della strategia rivoluzionaria applicata al fenomeno fascista; se cioè il fascismo era da considerare come una escrescenza del capitalismo che andava eliminata avvalendosi di tutti i mezzi che a questo scopo lo stesso capitalismo offriva alla lotta politica condotta dall’antifascismo considerato come un tutto pur nella diversità delle sue componenti (Gramsci e compagnia), oppure, come pensava la sinistra, il fascismo era da considerarsi come l’involucro ideologico-politico più sicuro, nella specifica situazione italiana, per garantire la conservazione del capitalismo nel suo complesso, per cui colpire il fascismo, spezzarne violentemente le strutture, significava colpire nel cuore il capitalismo e spazzar via le sue strutture tanto economiche che politiche.

 

Tutto ciò, tradotto in termini di concretezza politica, significava per Gramsci e compagnia rompere con le formulazioni fisse e troppo rigide della tematica rivoluzionaria della classe contro classe; piegare questa strategia a momento tattico per la soluzione di esigenze contingenti e particolari della lotta antifascista nell’ambito della più vasta e consistente esperienza capitalista, teoria gramsciana che considerava il fascismo episodio di “folclore paesano” da estirpare come mala pianta dallo stesso terreno del capitalismo sul cui tronco si sarebbe casualmente germinata. Soltanto così e con questi elementi così scarsamente conosciuti, perché volutamente sottaciuti, è possibile seguire il filo conduttore della politica del fronte unico con la inconcludente e contraddittoria tattica di avvicinamento all’Aventino e conseguente allontanamento; con l’uscita dal parlamento e conseguente rientro e infine con la puntata solitaria di Repossi per saggiare il terreno, escogitata soprattutto per salvare la faccia ad una politica deludente e fiacca e persino priva di fantasia. Se questa è la linea tattica di Gramsci, non dissimile nella sua essenza sarà quella adottata da Togliatti fin dal suo rientro in Italia e che tuttora guida le sorti del PCI. Enorme tuttavia è la loro differenza di fondo; Gramsci, che nella veste di responsabile del partito aveva più o meno apertamente e opportunamente abbandonato la prospettiva ideologica e politica dei Consigli, era tuttavia portato a far rivivere nel nuovo indirizzo tattico impresso al partito la sua tipica, originaria forma mentis di una prefigurata civiltà dei Consigli da realizzarsi nel tronco della stessa civiltà capitalista. Si trattava, in ogni caso, di una elaborazione teorica, anche se idealistica e quindi assai discutibile sotto il profilo marxista ma tuttavia elaborazione teorica che lo avrebbe posto al di sopra di quella aberrante paccottiglia tattica nazional-comunista e clerico monarchica che porterà il partito di Livorno nella palude parlamentare per seguire una chimerica via italiana democratica, pacifica, elettorale al socialismo.

 

Sotto questo rapporto, a mezzo secolo di distanza da quegli avvenimenti, è davvero tempo di riscoprire un Gramsci più vero, più aderente alla realtà che la storiografia, o meglio l’agiografia di partito e della cultura oggi di moda, ha così ignobilmente sfigurato, sfruttando ai propri fini l’aspetto emotivo e sentimentale della sua dolorosa vicenda umana.

 

Verrà il discorso di Mussolini del 3 gennaio e con esso la politica della smatteottizzazione e il rientro nella semi-illegalità, ma la gravità della situazione e dell’esperienza vissuta impone un necessario ripensamento critico: quando si determinano situazioni come questa di Matteotti con evidenti possibilità di sviluppo di una strategia rivoluzionaria e non si è capaci di legarsi al moto ascendente che la crisi pone in atto, alle aspettative delle masse e di obbedire agli imperativi che ogni crisi profonda della società porta con sé, inevitabilmente; in questo caso bisogna riconoscere apertamente che si è stati al di sotto dei compiti perché si è stati non la forza dirigente di una situazione favorevole, ma al suo rimorchio; ciò che ha finito per ridicolizzare la politica del partito nella fase più grave della crisi abbattutasi sul regime fascista, in quanto regime della conservazione capitalista.

 

Ma intanto la direzione gramsciana continua il sordo lavoro di penetrazione e di conquista dell’apparato del partito; chi, infatti, non sa o non vuole muoversi nel fuoco della lotta, è sempre maestro nell’intrigo politico. La fisionomia del partito nella fase Matteotti e immediatamente dopo non è praticamente cambiata; il centro è sempre avulso dalla base, è sempre più apertamente legato al centro di Mosca e dell’Internazionale mentre la base del partito è ancora sotto l’influenza ideologica e politica della sinistra; l’apparato è ancora parzialmente inoperante; si procede alla defenestrazione di alcuni compagni della sinistra dagli organi direttivi dell’organizzazione; tutto questo coincide con l’apertura del dibattito per il congresso di Lione.

 

Ma anche in casa nostra, anche in casa della sinistra italiana c’è qualche cosa da rivedere criticamente e da rimuovere; non si lascia una base organizzativa come quella della sinistra e soprattutto quadri saldamente formati in balia degli eventi senza una direzione, senza una responsabilità organizzativa.

 

Il compagno Bordiga, defenestrato d’autorità dal centro del partito, si era praticamente autodefenestrato dalla vita politica attiva e non assumeva nessuna responsabilità ufficiale, neppure nell’ambito della sua stessa corrente.

 

Si andrà a Lione; Lione sancirà la sconfitta “elettorale” della sinistra, ma la sinistra italiana dovrà difendersi, soprattutto dovrà difendere il suo patrimonio di idee e di esperienze, la sua base organizzativa e la forte caratterizzazione data al movimento dopo Imola e Livorno fino al 1924.

 

Il Comitato d’Intesa nasce in questa grave situazione e col preciso compito di salvare quanto ancora era salvabile nel partito di Livorno.

 

Sempre sul tema della tattica

 

Tale linearità di sviluppo può facilmente trarre in inganno per il brillare della sua logica del tutto formale che non va oltre il suo aspetto libresco, non affonda cioè l’analisi nel processo reale offerto dalla storia in cui ogni scissione dà l’avvio ad uno svolgimento di disgregazione e di aggregazione molecolare in cui l’elemento originario e determinante va ricercato nel momento economico che fa da spinta alla distinzione e all’urto delle molecole in movimento nella loro caratterizzazione data dal conflitto di classi opposte.

 

Tutta la storia del capitalismo è un susseguirsi di scissioni, di rivoluzioni passive e di guerre di posizione; ma con scissioni che non spezzano i legami istituzionali col vecchio mondo e non pongono le condizioni materiali ed umane per trasformarlo nel suo opposto, si rimane nel progressivo o regressivo, a seconda dell’angolo visuale da cui si parte, nell’alveo saldamente arginato della conservazione.

 

Ogni scissione che non spezza non solo ha un significato anomalo ma sul piano dello svolgimento generale dei flussi e deflussi politico-sociali è di fatto semplice increspatura di superficie che il mare risucchia e annulla nella normalità del movimento. Così le rivoluzioni continuano ad essere passive e le guerre di posizione rimangono tali come se non esistesse più spazio per guerre di movimento. Su questo piano e con lo stesso metodo Gramsci ha affrontato lo studio del nostro Risorgimento che gli offriva una grande messe di riferimento e di esemplificazioni a favore della sua definizione di rivoluzione passiva data anche la esigua presenza, in tale fase storica, di profonde conflittualità di classe.

 

La validità della nostra critica alla cosiddetta rivoluzione passiva si fa più viva e pertinente se messa al vaglio degli accadimenti più vicini a noi che noi stessi abbiamo intensamente vissuto; li elenchiamo per ordine di tempo; nel primo dopoguerra l’occupazione delle fabbriche (1920) diede il via ad una vasta e potente dislocazione di masse operaie sul piano del conflitto di classe che solo eventi molteplici e storicamente noti inchiodarono nelle fabbriche e tarparono le ali ad una soluzione rivoluzionaria: guerra, quindi, di posizione e rivoluzione passiva con il rientro nella normalità conservatrice; scissione con processo di disgregazione più che di aggregazione anche se erano prevalenti i dati di aggregazione delle forze rivoluzionarie attorno ad un partito, il PSI, che rivoluzionario non era.

 

Il rapimento e l’assassinio di Giacomo Matteotti ha aperto e messo in evidenza la crisi profonda che travagliava il regime fascista. E stato l’episodio più drammatico e rivelatore della vera natura del regime che ha scosso nel profondo la coscienza delle grandi masse e creato la condizione d’una scissione che non ha trovato lo spazio politico su cui operare. Da una parte un regime che vedeva salire da tutto il paese e da tutti i ceti della popolazione un invincibile odio per l’accaduto e una volontà, seppure repressa, di farla finita col fascismo e con le sue istituzioni e che si sentiva di fatto incapace di mobilitare la propria milizia armata; dall’altra un caotico schieramento antifascista miseramente arenato e reso imbelle sull’Aventino e, in coda, una direzione del Partito Comunista smarrita di fronte ad avvenimenti più grandi delle sue capacità di muoversi secondo una tattica e una strategia di classe, indecisa se uscire o rimanere nel parlamento, se dar vita o meno all’antiparlamento, se porre o meno la questione morale puntata non tanto contro il regime nel suo complesso quanto sulla persona di Mussolini.

 

Si è sopravalutato quanto avveniva sul piano politico parlamentare in attesa di svolte che non si sono avute e non si è posta l’attenzione dovuta alla acutissima tensione che sommoveva le masse specie delle zone più povere; una rivolta morale incapace, per forza propria, di trasformarsi in rivolta politica. Ciò che avemmo modo di rimproverare a Gramsci, come maggiore responsabile dell’esecutivo, il quale attendeva passivamente che si verificasse una qualche iniziativa dal basso come se non fosse compito del partito rivoluzionario seguire da vicino e verificare in una atmosfera rovente quale si era determinata nei primi giorni dopo l’assassinio di Matteotti, lo stato delle masse e la loro reale volontà di lotta anche se non apertamente espressa. C’erano sì, i rapporti degli interregionali, ma quanti di questi, quelli soprattutto che provenivano dalle zone più calde del meridione, sono finiti al macero per aver riferito l’esistenza di segni premonitori che andavano esaminati criticamente, sono stati ritenuti frutto di acchiappanuvole di sinistra, quando non del tutto provocatori, perché il funzionario estensore del rapporto non era, in un certo modo, in odore di santità centrista.

 

E pensare che era stato proprio Gramsci a scrivere sulla Questione meridionale che “il mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale”. Ebbene quando questa grande disgregazione sociale entra in fase di sommovimento ed il blocco organico dei tre strati sociali in funzione egemone entra in fase di dissolvimento per la diserzione degli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, era compito della direzione gramsciana di affondare una più avvertita attenzione critica in questo enorme potenziale umano della rivoluzione di classe.

 

Quando si determinano situazioni di crisi di eccezionale gravità come quella che stiamo esaminando, ed è allo stato latente una volontà generalizzata di cambiare tutto, il problema centrale per i rivoluzionari è quello del loro inserimento per aiutare lo stato latente a svolgersi, a divenire stato reale ed esprimersi sul piano che in quel momento si riteneva più idoneo, per incominciare l’opera del cambiamento.

 

È in questo ambito di visione critica che si sostenne da parte della sinistra la necessità dello spostamento dell’asse d’azione del partito dal piano d’una politica polarizzata su quanto stava accadendo tra le forze parlamentari, a quello delle masse operaie e contadine e delle loro istanze per operarvi dentro come forza di orientamento di classe, di organizzazione e di pungolo. Quando si decise di fare i primi passi in questa direzione era troppo tardi: il momento magico, quello che vede il nemico di classe schiacciato sotto il peso di un delitto infame della bancarotta economico-politica e per di più isolato e quasi del tutto indifeso, era obiettivamente passato. Mentre la vecchia tattica del partito era caratterizzata dall’attesa più o meno incerta di soluzioni immediate, la nuova tattica mirava a riprendere il contatto con le masse dei grandi complessi industriali con l’utilizzo dei compagni deputati coperti, per modo di dire, dalla immunità parlamentare. Chi scrive ebbe il compito e la soddisfazione di fare da cavia dando inizio ad una serie di comizi volanti che, per la verità, non avevano, e del resto non potevano avere, il pregio di una preparazione adeguata al rischio che ognuno correva. L’esperimento-cavia funzionò egregiamente: un comizio improvvisato in piazza Mastai, nel cuore di Roma, all’uscita delle maestranze dalla Manifattura Tabacchi, nel popoloso quartiere di Trastevere, davanti ad un pubblico più meravigliato che impaurito, l’oratore esaminò la crisi del regime e la necessità d’una ripresa di classe, ottenendo segni di consenso soprattutto quando dichiarò che aveva parlato come rappresentante del Partito Comunista. Ritornò rapido alla Camera dei deputati per sottrarsi così alle inevitabili reazioni. Il ghiaccio della paura e soprattutto della sfiducia era così rotto e i lavoratori, uomini e donne, potevano tornare a guardare al loro partito con la speranza d’una ripresa. In realtà in quel momento era il fascismo che, superato il pericolo, era in grado di riordinare le sue forze. La politica del partito, da un attendismo inerte alimentato fino allora dalla speranza che tutto si sarebbe risolto per grazia ricevuta da una improvvisa e provvidenziale politica di rivalsa della Corona passava ad un attivismo, il più spericolato e irresponsabile, buttando allo sbaraglio compagni senza un minimo di copertura e di difesa personale forse sperando che, come deputati, fossero assicurati contro ogni infortunio; già, dopo Matteotti!

 

Sta di fatto, comunque, che i compagni designati a questa missione l’hanno portata a compimento con profondo senso del dovere. Il rischio affrontato era il rischio di tutto il partito, tale, quindi, da assumere il carattere della necessità per tutti.

 

Tra i vari episodi vale la pena ricordare: il comizio davanti alla Marelli di Sesto S. Giovanni, finito per la violenta irruzione di squadre fasciste e conseguente scontro con non pochi feriti d’ambo le parti; l’imponente raduno formatosi all’uscita delle maestranze alla Diatto Fiat, a Torino, dove l’oratore fu interrotto a colpi di rivoltella da parte fascista che ferirono gravemente un operaio presente al comizio; una affollata riunione all’uscita delle maestranze d’un grande complesso tessile nel biellese ebbe il suo normale svolgimento quando si sparse la voce che un camion di fascisti messi in allarme dalla direzione dello stabilimento, era di fatto in arrivo. Se il compagno che aveva tenuto il comizio poté rientrare in Biella si dovette all’iniziativa e al comportamento fermo e generoso di un giovanissimo compagno che era intenzionato a ripetere l’impresa nella stessa giornata e nella stessa Biella già percorsa da squadre fasciste sguinzagliate alla ricerca degli importuni che avevano osato turbare la “quiete” politica imposta alla città e farla in barba a quelle autorità.

 

Non dissimili, nei modi di svolgimento e nelle conseguenze, i comizi volanti avvenuti un po’ ovunque davanti alle fabbriche, miranti tutti a riaprire il discorso di classe con gli operai, che allora come sempre nel regime del capitalismo, erano i soli interlocutori validi in quanto portatori delle istanze della classe rivoluzionaria proiettata nel futuro, in tempi più o meno lontani.

 

La rievocazione di questi episodi e di altri di importanza non dissimile e non meno significativi pone inevitabile la domanda del come giudicare l’altro modo o il modo diverso dell’indirizzo tattico datosi dal centro del partito e come tutto ciò si inquadri con il pensiero di Gramsci che li aveva vissuti come dirigente, con il Gramsci che li ripensa poi nel chiuso del carcere mentre rielabora la teoria, del resto non sua, della rivoluzione passiva e della guerra di posizione.

 

La domanda impone una precisazione preliminare che investe il problema della definizione del fascismo, della sua reale natura e del suo ruolo come forza motrice d’una esperienza ventennale.

 

La cosa che impressiona è la estrema leggerezza e la ostentata noncuranza del fenomeno presente nei maggiori esponenti del partito: Bordiga, ad esempio, riteneva, mentre era a Mosca per l’ “allargato”, impossibile un tentativo di marcia su Roma delle camicie nere e proprio nel momento che tale marcia era in pieno svolgimento, Gramsci se l’è cavata ora con la dichiarazione di “folklore del tutto episodico e paesano”, ora affrontando il problema del “cesarismo nella storia”.

 

Ci può essere, scriveva, un cesarismo progressivo e uno regressivo […] È progressivo il cesarismo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza progressiva […], è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva […] Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo. Napoleone III e Bismarck di cesarismo regressivo.

 

E Mussolini dove situarlo? Una indicazione Gramsci la dà ma deludente e nello stesso tempo sorprendente. Scrive infatti:

 

Così in Italia nell’ottobre 1922, fino al distacco dei “popolari” e poi gradatamente fino al 3 gennaio 1925 e ancora fino all’8 novembre 1926, si ebbe un moto politico-storico in cui diverse gradazioni di cesarismo si succedettero fino ad una forma più pura e permanente, sebbene anch’essa non immobile e statica. [3]

 

Ma, in avanti, ci chiediamo, o all’indietro? Mistero!

 

 

 

[1] Dalla Relazione tenuta da Gramsci al Comitato Centrale nell’agosto 1924.

 

[2] L’articolo citato è stato ripubblicato anche su Prometeo n. 9 III serie, 1967 e su Battaglia Comunista nn. 3, 4, 5, 1980; unitamente alla Postilla di Togliatti pubblicata sullo stesso numero de l’Unità citato.

 

[3] Gramsci, Note sul Machiavelli.


Comitato d'Intesa, primo campanello d'allarme



Quando la storia è ridotta a barzelletta

 

A quanto pare il PCI ha, per una vasta impresa editoriale, riunito intorno al Calendario del Popolo quanto di meglio e di più servile poteva disporre nel campo dei cultori della storia per la redazione della più fumettistica pubblicazione settimanale dal titolo: I comunisti nella storia d’Italia.

 

L’ordine di scuderia del PCI che condiziona questi intellettuali cresciuti nel fascismo o all’ombra del littorio, è sempre quello di stendere un documento che sia:

  1. agiografico limitatamente ai santoni maggiori del PCI come Gramsci, Togliatti e di qualche necessario sottopancia di scarso o di nessun rilievo intellettuale, politico o di milizia attiva, tranne quello dell’utile idiota politico, non caduto in disgrazia;
  2. silenzio più completo sulle cose e sugli uomini che nello stesso periodo storico abbiano avanzato delle istanze di critica e di opposizione;
  3. ridicolizzare uomini e cose la cui non citazione sarebbe risultata quasi impossibile e del tutto inopportuna in una ricostruzione storica pur che sia.

È questo il caso del Comitato d’Intesa delle cui vicende si è interessato l’estensore della pubblicazione citata.

 

Che l’iniziativa presa da un gruppo responsabile della corrente di sinistra del Partito Comunista d’Italia fosse politicamente necessaria e si situasse nel vivo di una situazione di crisi profonda, ricca di implicazioni presenti e future, lo dimostra l’ampiezza del suo raggio d’azione, la suggestione di una presa di posizione critica aperta e inesorabile che, partendo dall’esperienza italiana interessava tutto lo schieramento di partiti comunisti fino al centro dell’Internazionale.

 

La cosa strana e buffa è che i primi ad essere sensibilizzati dalle iniziative del Comitato d’Intesa siano stati proprio coloro che sono stati al vertice del partito. Li elenchiamo per la storia di questo periodo che dovrà pure essere scritta anche se non sorretta da complessi editoriali come quelli di cui dispone il PCI.

 

I primi a prendere contatto con la segreteria del Comitato d’Intesa furono: Secchia della federazione di Biella che per lunga tradizione era punta avanzata dello schieramento di sinistra del Piemonte.

 

Luigi Longo, che portò ai compagni della segreteria del Comitato d’Intesa la solidarietà della Federazione giovanile e la sua personale; quindi Dozza, Grieco e con loro gli interregionali delle zone economicamente più importanti tanto del Nord che del Sud.

 

Chi ha redatto questa ricostruzione degli avvenimenti di quell’epoca ha dimostrato di non avere una conoscenza diretta né ha obbedito allo scrupolo di verificare i dati consultando i documenti o interpellando i protagonisti di questa vicenda politica.

 

Così si tace sull’unica seria presa di posizione politica, degna di rilievo per la sua esatta e rigida impostazione marxista data alla “questione morale” con cui l’opposizione aventiniana voleva liquidare Mussolini per l’uccisione di Matteotti. Tale dichiarazione, letta alla Camera da Grieco, non solo non era in linea con la politica anguillesca, contraddittoria e paurosamente debole del centro del partito sotto la direzione di Gramsci-Togliatti ma era stata elaborata a Napoli in casa di Bordiga che, benché assente, era pur sempre presente in una direzione mostratasi inetta e sprovveduta di fronte ad avvenimenti assai più grandi dei due suoi maggiori esponenti già in posizione concorrenziale e di reciproca disistima.

 

Ce n’è abbastanza, ci pare, per capire il perché della voluta omissione. E siamo alla posizione di Bordiga di fronte al Comitato d’Intesa che lo storico (per modo di dire) del Calendario del Popolo precisa in questi termini:

 

Non appena Gramsci ha annunciato la convocazione del III Congresso, i “sinistri” tirano le fila del loro lavoro sotterraneo ed il 1° giugno 1925 costituiscono un “Comitato d’Intesa” nel quale Bordiga ritiene prudente, per il momento, non figurare anche se è lui che ha suggerito la manovra. Il Comitato d’Intesa è formato da tre deputati: Onorato Damen, Bruno Fortichiari e Luigi Repossi e infine da Carlo Venegoni, Mario Lanfranchi, Fausto Gullo e Ottorino Perrone.

 

La verità vera è ben altra.

  1. Bordiga, fin dall’epoca della sua defenestrazione dall’esecutivo del partito non ha preso iniziative personali a nome della “sinistra” e quel che ha fatto e scritto in quel periodo deve essere considerato come espressione collettiva della “sinistra”;
  2. La costituzione del Comitato d’Intesa è avvenuta a Milano per iniziativa di un piccolo gruppo di compagni della sinistra all’infuori e all’insaputa di Bordiga anche se a questo compagno si dovrà poi la stesura della maggior parte dei documenti pubblicati e diffusi in nome del Comitato d’Intesa, alla cui iniziativa Bordiga si è allineato solo in un secondo tempo e senza troppo entusiasmo;
  3. Inventato di sana pianta e a scopo provocatorio l’episodio del cosiddetto viaggio di Bordiga “nelle maggiori sezioni di tutto il paese per rinsaldare i vecchi legami. Il suo obiettivo — commenta lo storico — è quello stesso del 1918: costituire una frazione che gli permetta di ripartire alla conquista della direzione del partito”.

Come si vede il falso viaggio doveva servire da pretesto alla fantomatica “frazione” che turbava le notti insonni degli uomini del nuovo Centro del partito. La verità è che Bordiga in quel tempo e nelle sue condizioni di spirito non si sarebbe mosso da Napoli neppure con la violenza atomica.

 

Ed è proprio a Napoli che viene tenuto il primo, vero convegno della “sinistra” con la partecipazione dei più qualificati rappresentanti dell’apparato organizzativo del partito. E, sempre a proposito della frazione e del dente avvelenato del centrismo stalinista, furono proprio i burocrati del partito a proporre l’utilizzazione dei fondi del partito stesso, da essi amministrati, per adeguare la funzionalità del Comitato d’Intesa alle esigenze della sua battaglia, proposta che venne respinta proprio dai compagni Damen e Bordiga con l’affermazione che i fondi dovevano rimanere dove erano; che i compiti assegnati al Comitato d’Intesa erano di semplice collegamento di corrente per rendere possibile una adeguata riaffermazione dei principi della sinistra in vista della preparazione della campagna precongressuale. Pochi sanno che subito dopo Gramsci convocò i funzionari del partito che avevano partecipato al convegno di Napoli e pose loro il solito dilemma amministrativo: o voi eseguite e difendete la politica del partito che vi paga o verrete licenziati. E sulla base di questo “puttano” ma pur sempre efficace dilemma, si ebbe la conseguente vergognosa capitolazione di tutti, diciamo tutti, come se la milizia di un rivoluzionario nel suo partito di classe fosse diventata ad un tratto, merce di contrattazione.

 

Le vicende personali di questi compagni che ruppero con la Sinistra per paura di misure amministrative, dimostreranno all’evidenza che essi avevano visto giusto al fine della loro futura valorizzazione personale nell’apparato del partito.

 

Il mite Gramsci era divenuto, Guicciardini insegna, una sorta di bottegaio ligio agli interessi della bottega e al prestigio della sua ragione sociale. Ma il monito che viene oggi dal Comitato d’Intesa rimane in tutta la sua validità di prospettive che individua nella bolscevizzazione e nella politica dell’Internazionale l’inizio di quel processo di degenerazione strutturale, ideologica e politica del Partito Comunista d’Italia ormai asservito allo stalinismo e ai mutevoli orientamenti dello stato sovietico.

 

Documenti

 

Del Comitato d’Intesa si è sempre detto poco e male. La storiografia ufficiale in generale, quella socialdemocratica in particolare, hanno molto spesso liquidato l’episodio tacciandolo di frazionismo o di sinistrismo. In entrambi i casi l’accusa era di velleitarismo e di infantilismo politico estremizzante, tanto nocivi alla vita del Partito, quanto inoperanti sul terreno della pratica politica quotidiana. Nel giugno del 1925, la direzione gramsciana era intensamente impegnata ad inserire nel corpo del Partito le direttive politiche della III Internazionale, già abbondantemente degenerate rispetto alle indicazioni del suo secondo congresso. In più la neo-direzione gramsciana doveva fare i conti con una base ancora legata alle posizioni dì sinistra.

 

I documenti che presentiamo testimoniano che il Comitato d’Intesa non è stato un semplice incidente dì percorso, voluto ed organizzato da un pugno di irriducibili “sinistri”, ma il responsabile tentativo di salvaguardare tutto il patrimonio politico del Partito che la nuova gestione andava svilendo del suo contenuto rivoluzionario.

 

Non a caso l’iniziativa del Comitato d’Intesa cade in un momento particolarmente critico segnato dal radicale mutamento della politica della III Internazionale, dalla defenestrazione della “Sinistra” dalla direzione del Partito, dalla sua sostituzione, voluta ed imposta dal centro di Mosca, con il centrismo di Gramsci e Togliatti, dalla “crisi Matteotti” e dall’episodio dell’Aventino.

 

Una semplice lettura dei documenti, sia quelli della Segreteria che della opposizione, dimostra come l’iniziativa del Comitato d’Intesa non sia stata una fastidiosa farneticazione politica che intralciava i piani di Mosca e la pedissequa applicazione del Centro italiano, quando il più serio tentativo di opporsi alla degenerazione “tatticista” dell’Internazionale Comunista, e con essa di tutto il movimento comunista internazionale. La storia che ne è seguita non fa altro che riconfermare, valorizzandoli, i contenuti dì questi documenti.

 

Contro lo scissionismo frazionistico per l’unità del Partito Comunista d’Italia (Sezione dell’Internazionale Comunista)

 

Comunicato del Comitato Esecutivo

 

II Comitato Esecutivo già da tempo era informato di una certa attività frazionistica che era svolta nelle file del Partito da alcuni elementi irriducibili alla consapevolezza rivoluzionaria e alla disciplina internazionale e che amano definirsi di “sinistra” o meglio ancora della “Sinistra Italiana”. Il C.E. era informato, controllava, vigilava; già una volta, prima che si riunisse a Mosca il recente Esecutivo Allargato dell’Internazionale, esso denunziò alle masse del partito la situazione che si era venuta delineando in conseguenza dell’atteggiamento, determinatore di un frazionismo latente, assunto dal compagno Amadeo Bordiga dopo il V. Congresso Mondiale. La massa del partito reagì allora energicamente contro i disgregatori ma l’avvertimento non fu compreso da costoro, ai quali nulla ha giovato la sanguinosa esperienza di questi anni di reazione e di fascismo: essi credono di rivivere ancora nel periodo “1920”, essi hanno conservato intatte le concezioni organizzative della socialdemocrazia, essi ritengono che la classe operaia ed il nostro partito, che della classe operaia è l’avanguardia, impegnato nella lotta quotidiana contro il fascismo del governo e contro il semifascismo delle opposizioni, vogliano lasciarsi distrarre dalla loro attività per seguirli nelle meschine e delittuose manovre frazionistiche e scissionistiche contro l’Internazionale.

 

I documenti, che il C.E. crede necessario comunicare alla massa del partito, sono abbastanza chiari di per sé. Si è costituito nel partito un gruppo che ritiene il periodo di preparazione e di discussione precongressuale come una specie di parentesi nella lotta rivoluzionaria: — i vincoli disciplinari dovrebbero ritenersi allentati o addirittura aboliti; l’unità ferrea dell’organizzazione dovrebbe decomporsi in tutta una serie di frazioni, quante sono le correnti possibili nell’interno del partito che discute e quante sono quelle che piacerà al governo di creare attraverso i possibili suoi agenti provocatori; il Comitato Centrale, rappresentante di questa unità, dovrebbe ridursi ad un ufficio amministrativo che registra e cataloga le opinioni, le proposte, le iniziative dei vari comitati delle varie frazioni.

 

Questo modo di pensare è una sequela di deviazioni che devono essere combattute con la maggior energia; se diventa una attività, se cerca di concretarsi in una frazione, se si sviluppa in una azione illegale e cospirativa nell’interno del partito, esso diventa un delitto contro il partito, contro il proletariato, contro la rivoluzione. L’unità ferrea del partito, la lealtà di tutti i soci verso gli organi responsabili del partito, la disciplina più assoluta non possono subire interruzioni per nessuna ragione. Significa ciò che manchi la libertà per la discussione del congresso, che i compagni tutti siano privati della capacità e della possibilità di esprimere la loro opinione per contribuire alla vita e all’amministrazione del loro partito? Certamente no. Possono formarsi nel partito, attraverso i dibattiti, correnti di opinioni che si ritroveranno e si misureranno nei Congressi federali e nel Congresso Nazionale, non possono formarsi frazioni organizzate che abbiano comitati dirigenti palesi o clandestini, i quali lavorino per scindere permanentemente le file dell’organizzazione, per contrapporre le loro direttive alle direttive del C.C. e dell’Internazionale, una loro disciplina alla disciplina del partito e dell’Internazionale, per creare una massoneria irresponsabile contro il C.C. italiano e contro l’Esecutivo Internazionale.

 

La grande massa dei soci del partito ha già compreso come l’unità ferrea dell’organizzazione sia un presupposto necessario per l’esistenza del partito stesso e per la sua efficienza rivoluzionaria. Esso ha già reagito e reagirà ancora più energicamente contro tutte le manovre dei vari gruppi o gruppetti di elementi irresponsabili che, demoralizzati dalle difficoltà obiettive della situazione italiana, hanno perduto ogni orientamento politico e creduto tutto risolvere con le frasi e con le pose estremiste: che tale sia la situazione del partito è dimostrata dal fatto che tutti i documenti frazionistici vengono consegnati alla Centrale, che la Centrale è stata informata delle riunioni che si sono tenute in alcune città, che numerosi compagni, che pure si affermano della cosiddetta “sinistra italiana”, hanno recisamente rifiutato di far causa comune con i disgregatori.

 

La grandissima maggioranza del partito è col C.E. per la lotta a fondo contro chiunque voglia nel ‘25 rifare la manovra contro l’Internazionale Comunista fatta dai massimalisti nel ‘20, dopo l’occupazione delle fabbriche e che alla scissione di Livorno portò la maggioranza degli operai rivoluzionari fuori dalle file dell’Internazionale Comunista.

 

È partendo da queste considerazioni che il C.E. unanime, ha giudicato che i componenti del Comitato d’Intesa, compagni Damen, Repossi, Lanfranchi, Venegoni, Manfredi, Fortichiari, si sono resi colpevoli di un attentato contro il partito che potrebbe essere sanzionato con la loro espulsione e ha deciso di rinviarli al giudizio della prossima Sezione del Comitato Centrale, sospendendoli nel frattempo da ogni lavoro o incarico nell’organizzazione.

 

Il Comitato Esecutivo

 

Al C.E. del partito Comunista d’Italia

 

Questa lettera — che sembrerebbe una normale manifestazione di un gruppo di compagni che si mette in rapporto col C.E. per comunicargli delle proposte, sia pure contrarie alle direttive generali dell’Internazionale in materia di organizzazione ma tuttavia lecite a farsi, salvo a non essere accettate e a cadere nel dimenticatoio — acquista significato e valore alla luce dei due altri documenti seguenti.

 

Cari compagni,

 

Tra le deliberazioni prese dal Comitato Centrale nella sua ultima riunione e rese pubbliche su l’Unità, organo del partito, il 26 maggio u.s., vi è quella che riguarda la preparazione della maggiore manifestazione interna del partito: il congresso, il quale, si dice, sarà tenuto tra breve, dopo cioè una profonda ed ampia discussione, la quale è però da considerarsi virtualmente aperta per quanto debba essere preceduta dalla pubblicazione di tutti i documenti relativi ai lavori dell’ultima sessione del C.E. allargato.

 

È superfluo dichiarare quanto veramente sia sentita la necessità di un serio ed ampio dibattito pre-congressuale. La situazione interna del partito, situazione — come voi stessi riconoscete — di confusionismo ideologico esistente ancora e malgrado tutto in strati abbastanza vasti del partito, ne dimostra tutta l’urgenza.

 

Ma, cari compagni, vi potrà essere e in tutta la sua interezza questo indispensabile processo di chiarificazione del nostro partito, se compagni esponenti delle varie correnti di pensiero non saranno posti nelle condizioni di poter partecipare attivamente e a condizioni di parità al dibattito sia giornalistico che orale?

 

A questo proposito, gli organi responsabili avranno senza dubbio tenuto presente la vita eccezionale e precaria cui è sottoposta la nostra stampa. Potrà infatti essa consentire, e fino a che punto, lo sviluppo di una non breve campagna di chiarificazione? Lo stesso quotidiano l’Unità dovrebbe, a nostro parere, aprire le sue colonne alla discussione.

 

D’altronde, quale valore potrebbe avere ai fini della bolscevizzazione un congresso di partito cui presenzino delegati delle varie federazioni nelle quali non si sia precedentemente discusso, con serietà e conoscenza dai rappresentanti riconosciuti delle diverse correnti i “problemi fondamentali della vita nazionale sulla cui base deve tracciarsi il programma generale del partito?”.

 

Noi crediamo nessuno, a meno che non si voglia preferire tra compagni il legame della disciplina formale alla adesione — così detta — per convinzione.

 

I compagni sottoscritti che vi inviano la presente, legati tra di loro da identità di vedute e di apprezzamenti critici di fronte ai problemi più vitali del partito, pensano che i vari confusionismi ideologici non si vincono che sul terreno del dibattito senza limiti e scevro da ogni e qualsiasi forma di prevenzione. A tale scopo propongono:

  1. che sia data alla discussione uno spazio di tempo quale lo stato di impreparazione delle masse del partito e la importanza delle questioni richiedono;
  2. che ai congressi provinciali sia data facoltà di parlare in contraddittorio ai compagni riconosciuti delle diverse tendenze;
  3. che la nomina dei delegati al Congresso del partito sia fatta dai rispettivi congressi federali; nel caso però che tale nomina venga fatta con altri sistemi, sia data facoltà di scelta degli elementi chiamati a far parte di eventuali comitati ai fiduciari delle diverse correnti;
  4. che sia infine riconosciuto il diritto di nominare e disciplinare gli oratori che illustreranno al congresso il pensiero di questa o quella corrente.

È evidente che il lavoro di preparazione congressuale è tale che richiede da tutti attività e disciplina.

 

I compagni firmatari della presente portano perciò a conoscenza dei compagni del Comitato Esecutivo l’avvenuta costituzione di un “Comitato di Intesa” tra gli elementi della sinistra. Saluti comunisti.

 

f.ti: Onorato Damen, Luigi Repossi, Mario Lanfranchi, Venegoni Carlo, Mario Manfredi, Bruno Fortichiari — 1 Giugno 1925

 

Al Compagno X

 

Caro Compagno,

 

Abbiamo avuto dal compagno Y il tuo indirizzo del quale ci serviamo per allacciare questo Comitato con i compagni di […] e provincia. Saprai dirci se il presente tuo indirizzo potrà ancora essere adoperato da noi o se dovrà essere cambiato.

 

Ed ecco le ragioni della presente: il Congresso del Partito che sarà tenuto tra non molto ci dà motivo ad un lavoro di carattere organizzativo e propagandistico il quale, in sostanza, supera il fatto del congresso stesso e mira a creare con tutto il partito una specie di collegamento spirituale tra i compagni della sinistra atto allo sviluppo di un processo critico di differenziazione necessario in questo momento nel nostro partito.

 

Accludiamo alla presente una copia della circolare personale e segreta diffusa da questo Comitato d’Intesa, dalla quale apprenderai in modo particolareggiato le ragioni suesposte e la necessità a iniziare senz’altro un serio ed efficace lavoro di collegamento con tutte le ragioni, gruppi, cellule, ecc. ecc. della vostra provincia, scegliendo i compagni più fidati e politicamente più provati della nostra corrente di pensiero.

 

Sarebbe bene che tu stesso facessi una scappata qui a Milano per conferire a questo scopo con i compagni incaricati di questo lavoro. In tal senso sarai pregato anche dal compagno Y il quale oggi stesso ti scriverà. Nel caso tu decida di venire a Milano, preavvisa il giorno perché si possa organizzare e preavvisarti l’appuntamento.

 

Il nostro indirizzo provvisorio è […]

 

Saluti comunisti.

 

22 Maggio 1925

 

Circolare N° 1 (personale)

 

Caro Compagno,

 

Quando dai compagni che dirigono attualmente il partito si va ripetendo con insistenza che oramai la intera massa del partito è sul terreno della tattica dell’Internazionale e segue ormai con convinzione il pensiero e il metodo dei dirigenti, ciò vuol significare che in questi compagni esiste la persuasione che la Sinistra Italiana del Partito Comunista più non sia che un gruppo più o meno numeroso di intellettuali incapaci di venir meno alla adozione di una astratta intransigenza dottrinaria.

 

Gli stessi compagni dirigenti la Internazionale abusano di questa forma di restrizione mentale e fingono di ignorare l’esistenza di una sinistra italiana allorché mirano a bersagliare il compagno Bordiga. Nella recente riunione dell’Esecutivo Allargato, il compagno Zinoviev è nientemeno arrivato a considerare il compagno Bordiga come passato decisamente all’estrema destra. Quando si tenda ridurre il necessario e insopprimibile dibattito tra le diverse correnti di pensiero e dell’attività di alcuni compagni più quotati della Internazionale stessa, abbiamo diritto di domandarci se la passione di parte sia già così forte da far perdere la serenità di giudizio e il buon senso.

 

E in questa situazione e con tale stato d’animo, sia nazionalmente che internazionalmente, che si prospetta la possibilità della convocazione del Congresso Nazionale del Partito. I compagni della sinistra sono chiamati a difendere con l’energia che distingue i vecchi combattenti dell’idea comunista, il pensiero, la tattica e tutta una tradizione di capacità rivoluzionaria e di lotta. Dobbiamo prepararci a dimostrare ancora una volta come non sia giusto e conveniente fingere di ignorare l’esistenza di tutta una corrente d’altronde considerevolissima, nel movimento comunista del nostro paese e circoscrivere la lotta al solo obiettivo “Bordiga”.

 

Pur essendo pienamente solidale con il compagno Bordiga, la sinistra italiana deve saper dimostrare come sia stato vano ogni tentativo di assorbimento e di deviazione e come d’altra parte sia in tutti forte la convinzione che il patrimonio ideale e tattico della sinistra italiana sia il portato logico di tutta una non breve esperienza storica del movimento rivoluzionario internazionale. Crediamo che sia giunto il momento di parlar chiaro ai compagni.

 

D’altronde la stessa attività del nostro partito, messa in relazione alla situazione politica del paese, è tale che richiede dai compagni della sinistra una immediata presa di posizione critica che investa in pieno questa attività e la posizione teorica che la esprime.

 

A questo scopo un gruppo di vecchi e provati compagni riuniti in “Comitato d’Intesa” si impegna di tenere informati da oggi i compagni della periferia non solo, ma di ottenere al più presto un sufficiente collegamento atto a rendere unitaria e omogenea questa opera. Consigliamo perciò i compagni che hanno cariche di partito e i compagni in genere dei vari centri di mettersi subito a contatto col “Comitato d’Intesa” e di fornirci al più presto gli indirizzi sicuri per il recapito della corrispondenza.

 

La presente circolare è strettamente riservata ai compagni a cui è indirizzata: ci riserviamo di dare disposizione in una seconda circolare per indicare ai compagni in modo come debba essere organizzata la propaganda e il lavoro di preparazione del congresso.

 

Saluti fraterni.

 

[Timbro con falce e martello e spighe portante la dicitura: “Comitato di Intesa”] — Aprile 1925

 

Il partito combatterà con energia ogni ritorno alle concezioni organizzative della socialdemocrazia

 

Comunicato del Comitato Esecutivo

 

Quando, dopo il V Congresso dell’Internazionale Comunista, il C.C. del partito affermava che l’atteggiamento assunto dai compagni dell’estrema sinistra di fronte alle decisioni di quel Congresso e particolarmente il loro rifiuto a far parte degli organi direttivi del partito, non solo del Comitato Esecutivo ma persino del Comitato Centrale, in seno al quale sarebbe stato sempre possibile precisare la propria responsabilità politica sulle questioni generali e su ciascun problema politico in particolare, aveva sostanzialmente un significato frazionistico per la concezione ed il metodo politico che in tale atteggiamento si esprimeva e per le conseguenze che ne sarebbero praticamente derivate, molti compagni dell’estrema sinistra rispondevano negando recisamente tale giudizio, anzi protestando contro tali affermazioni che essi dicevano essere fatte a puro scopo polemico.

 

E quando nei Congressi federali convocati dopo il V Congresso mondiale, il C.C. del Partito pose praticamente tale questione affermando la necessità che gli esponenti della tendenza di estrema sinistra entrassero a far parte del C.C., da parte di alcuni compagni — la stragrande maggioranza del partito era invece consenziente con tale soluzione — si reagì violentemente definendo tale proposta una provocazione ed un atto di ostilità.

 

Ora i nomi di coloro che così parlavano alcuni mesi fa, oggi li ritroviamo nel sedicente “Comitato d’Intesa” che altro non è, come risulta dai documenti che qui pubblichiamo, che il Comitato Centrale di una frazione che si tenta segretamente creare e di organizzare in seno al partito. Dopo avere respinto “a parole” pochi mesi fa, quanto noi dicevamo, essi confermano oggi con i “fatti” le nostre affermazioni.

 

Per la verità e l’esattezza si deve anche dire che taluni compagni, pur essendosi dichiarati d’accordo in un primo momento con la posizione assunta dall’estrema sinistra, certamente perché non ne vedevano chiaramente il contenuto ed il significato politico, oggi sono recisamente contro una così insana iniziativa ed ogni tentativo di far degenerare la discussione ideologica che sta per iniziare nel partito e che noi tutti riteniamo utile e necessaria, in una lotta di frazioni estremamente dannosa e pericolosa.

 

I fatti che qui documentiamo sono di una tale gravità da imporsi alla più severa attenzione di tutti i compagni. Mai si era vista nel nostro partito più audace offesa alle norme più elementari di organizzazione e di disciplina di un Partito Comunista. Bisogna guardare la realtà in faccia e non aver paura di chiamare le cose con il loro vero nome: l’iniziativa del “Comitato d’Intesa” porta in sé il germe di una scissione del partito. Basta leggere i documenti e la circolare “segreta” che tale comitato ha illegalmente inviato a qualche suo fiduciario nella nostra organizzazione per convincersene.

 

I compagni tutti devono reagire con la massima energia a questo attentato all’unità e alla compagine del nostro partito. In un momento in cui la reazione contro il nostro movimento si aggrava, i pericoli aumentano e la situazione si presenta sempre più gravida di minacce; ogni tentativo di compromettere ed indebolire la coesione interna e la solidarietà organizzativa dell’avanguardia rivoluzionaria organizzata nel Partito Comunista è un atto delittuoso che merita le più gravi sanzioni ed il biasimo più severo. Noi siamo certi che ogni tentativo frazionistico è destinato al fallimento; i germi di infezione frazionistica, che qua e là tendono a dare manifestazione di vita, saranno inesorabilmente schiacciati ed eliminati. L’organismo del partito è sano e vigoroso e saprà resistere ottimamente.

 

Al disopra di ogni reazione psicologica e di ogni voce di sdegno, che insorge spontanea nella coscienza di ogni militante rivoluzionario che non abbia smarrito il senso del dovere che gli impone la milizia rivoluzionaria; noi dobbiamo porre tale questione sul terreno ideologico per scoprire e porre in chiaro l’errore di principio da cui essa deriva. I compagni tutti dovranno rendersi conto degli errori pratici e delle aberrazioni alle quali si può giungere partendo da concezioni teoricamente viziate ed in gran parte erronee. Ponendosi sulla via per la quale si sono incamminati i componenti del sedicente “Comitato d’Intesa” si va diritto fuori del Partito e dell’Internazionale Comunista. E porsi fuori del Partito e dell’Internazionale significa porsi contro il Partito e l’Internazionale Comunista, significa cioè rafforzare gli elementi della controrivoluzione.

 

È bene parlare chiaro perché non si formino delle illusioni. Dei documenti che qui pubblichiamo sarà necessario riparlarne. Essi meritano un esame intrinseco, sia per ciò che in essi si afferma sia per il doppio gioco che essi svelano nell’azione dei componenti del Comitato d’Intesa, da alcuni dei quali, almeno, ci attendevamo una condotta di maggiore lealtà e di maggior senso di responsabilità. E sarà necessario anche mettere in chiaro la manovra che si nasconde nell’assenza del nome del compagno Bordiga, col quale certamente è concordata l’iniziativa del “Comitato d’Intesa”. È doloroso dover fare simili constatazioni quando tra i firmatari troviamo il nome di compagni che pur furono con noi fra i fondatori del partito e per esso lottarono ed operarono.

 

Ma la realtà è quella che è, ed ogni debolezza in questo momento sarebbe colpa grave. Al disopra di ogni cosa deve porsi l’interesse del partito, per il quale dobbiamo essere pronti in ogni momento ad affrontare ogni sacrificio. Amicizie, vincoli personali ed i più tenaci e più profondi legami di affetto non possono e non devono limitare il dovere che la milizia rivoluzionaria ci impone. Se non avessimo la forza di far ciò, non saremmo dei rivoluzionari militanti ed avremmo perciò il dovere di trarci in disparte.

 

Tutti i compagni devono far propria questa norma. Diciamo questo perché nel nostro partito troppa influenza hanno avuto finora le forme sentimentali. Questa è una debolezza dalla quale dobbiamo saper guarire, se vogliamo veramente portare il nostro partito all’altezza di un vero Partito Bolscevico.

 

La piattaforma del Comitato d’Intesa

 

A) Partito e masse

 

È errore ritenere che in ogni situazione si possa con espediente e manovra allargare la base del partito tra le masse, in quanto i rapporti fra partito e le masse dipendono in massima parte dalle condizioni oggettive della situazione.

 

La controversia tra la sinistra e le altre correnti consiste nella opinione nostra che le variazioni della situazione non debbano alterare il programma e i metodi fondamentali di organizzazione e di tattica del partito. Secondo noi l’accrescersi dell’influenza del partito fra le masse è imposto dall’acutizzarsi delle situazioni rivoluzionarie e dalla misura in cui il partito resta fedele al suo compito rivoluzionario e mantiene fermi i suoi postulati di organizzazione e di tattica. Le altre correnti considerano il problema della conquista delle “masse” apparentemente come un problema di volontà, ma sostanzialmente ricadono nell’opportunismo adattandosi volta a volta alle situazioni. Essi deformano così la natura e le funzioni del partito fino al punto da renderlo inetto anche alla stessa conquista delle masse e ai suoi compiti supremi quando la situazione glieli presenterà.

 

Uno degli appunti che si muovono alle nostre considerazioni tattiche è quello che possiamo a volte alienarci le masse, e che in linea di principio noi trascuriamo le masse ed ignoriamo le situazioni reali per il gusto di mantenere intatta la nostra intransigenza. Ma ciò avviene solo apparentemente poiché in realtà siamo noi i soli a tener conto delle situazioni concrete nel senso rivoluzionario, poiché inquadriamo il lavoro del momento nel piano generale d’azione del partito facendo corrispondere allo svolgimento dialettico delle situazioni quello del partito stesso.

 

B) Sistemi organizzativi del partito

 

Il partito è l’organo che sintetizza e unifica le spinte individuali e di gruppi provocate dalla lotta di classe. In quanto tale il tipo di organizzazione del partito deve essere capace di porsi al di sopra delle particolari categorie e perciò raccogliere in sintesi gli elementi che provengono dai proletari delle diverse categorie, dai contadini, dai disertori della classe borghese, ecc.

 

Per le altre tendenze il tipo dell’organizzazione di partito è quella della cellula. Esse pensavano d’avere già risolto il problema rivoluzionario della tattica per il fatto di avere l’organizzazione base del partito nella fabbrica e cioè fra gli operai. Possiamo ricordare che questo è precisamente il tipo delle organizzazioni contro-rivoluzionarie (Sindacati, Labour Party) ove il frazionamento della classe operaia in gruppi professionali produce lo smarrimento della visione delle finalità di classe. È quindi errato il sostenere che l’organizzazione su base territoriale sia quella propria dei partiti elettoralistici, mentre il sistema… cellulare sia la chiave di volta per una giusta tattica rivoluzionaria.

 

Il richiamarsi all’esperienza organizzativa russa per trapiantarla in occidente non basta né giova, poiché negli anni dal 1905 al 1917 in Russia il capitalismo era appena agli inizi mentre sviluppato ed imperante era invece il terrore zarista. Quindi l’apparato organizzativo del partito, costituito da gruppi di fabbrica e da un schiera di funzionari (rivoluzionari professionali) mentre rispondeva alle condizioni oggettive dello sviluppo iniziale del capitalismo rispondeva altresì alla concentrazione del proletariato nei pochi centri industriali e alla necessità di azione sindacale delle masse, che mancavano ancora di potenti organismi idonei. D’altra parte erano evitate le deviazioni contro-rivoluzionarie perché l’azione delle cellule anche per rivendicazioni immediate, poneva il problema generale rivoluzionario, non essendo possibili pacifiche e parziali conquiste, ed anche perché la selezione dei capi era garantita dallo stesso rigore della reazione zarista. Infine l’organizzazione poliziesca dello zarismo lasciava agli operai una maggiore possibilità d’azione nelle fabbriche che fuori. Invece nei paesi dove manca questa eccezionale situazione che si presenterà in Russia dal 1905 al 1917, il sistema delle cellule si presta alla comoda dittatura di un funzionarismo burocratico le cui deviazioni controrivoluzionarie sono luminosamente dimostrate dalle esperienze dei partiti socialdemocratici.

 

Per noi il sistema delle cellule equivale ad un sistema federativo che è la negazione della centralizzazione dei Partiti Comunisti, intendendo per centralizzazione il massimo potenziamento delle energie rivoluzionarie della periferia coordinate e riflesse nell’apparato dirigente.

 

Analogamente il problema della disciplina si pone come incanalamento e utilizzazione delle forze che si sviluppano e che il sistema organizzativo deve essere capace di armonizzare. In tal caso le nuove esperienze diventano il patrimonio del partito che le interpreta, le assimila, non divenendo un ritrovato di pochi funzionari che le impongono al partito inerte secondo interpretazioni il più delle volte errate. Le sanzioni disciplinari divengono quindi repressioni di fenomeni sporadici e non compromissione generale di tutto il partito, del quale anzi devono costituire una riserva contro singole manifestazioni aberranti.

 

L’apparire e lo svilupparsi delle frazioni è indice di un male generale del partito; è un sintomo della mancata rispondenza delle funzioni vitali del partito stesso alle sue finalità e si combattono individuando il male per eliminarlo e non usando dei poteri disciplinari per risolvere, in modo necessariamente formale e provvisorio, la situazione.

 

La sinistra prospetta con il suo pensiero generale l’unico metro per eliminare le condizioni che danno vita alle frazioni e per garantire una disciplina ferma, ma cosciente. Difatti noi ci siamo sempre opposti alle manovre organizzative, alle doppie organizzazioni di partito (fusioni, frazioni in altri partiti, ecc. ecc.) perché spezzano la continuità razionale di sviluppo del partito e ne minano le stesse regole di vita e funzionalità fra le quali principalmente la disciplina.

 

C) Problemi di tattica

 

Per il fronte unico e il Governo operaio si richiamano in generale le critiche mosse dalla sinistra e in particolare le tesi sulla tattica della Sinistra al IV Congresso Mondiale pubblicate su Stato Operaio nel primo semestre del 1924, in preparazione della conferenza nazionale del Partito.

 

Insistiamo, in contraddizione con gli altri che parlano di fronte unico prevalentemente come manovra di smascheramento dei partiti non comunisti, sul noto concetto della Sinistra per cui il partito, ponendo rivendicazioni economiche e politiche proprie di tutta la classe lavoratrice, incoraggia in questo la tendenza alla lotta e tenta di acquistarne la direzione esso solo e non ibride coalizioni con altri partiti.

 

Sul Governo Operaio riconfermiamo che se si tratta di un sinonimo della “Dittatura del Proletariato” e cioè di una cosiddetta parola di agitazione, noi siamo contrari alla formulazione di parole d’ordine che non hanno un proprio significato; se invece si tratta di qualcosa di diverso dalla “Dittatura del Proletariato”, l’avversiamo più fieramente in quanto rappresenta pericolosissime deviazioni parlamentaristiche, se non addirittura la negazione dei principi elementari del marxismo rivoluzionario.

 

Siamo ugualmente avversi alla politica delle lettere aperte e delle proposte agli altri partiti che vorrebbero ridurre la lotta rivoluzionaria a manovre fra capi nel mentre possono costituire un alibi all’inerzia, divergono le masse dall’obiettivo, dalle necessità e dalle difficoltà della lotta e si risolvono in una tattica sterile e ridicola.

 

D) Questioni sindacali

 

Riconfermiamo la nostra accettazione delle tesi in merito al II Congresso dell’I.C.; la nostra contrarietà alla scissione sindacale e la necessità per il partito di una rete permanente nell’interno dei sindacati professionali che si trasformerà in organismo dirigente dei sindacati quando la situazione sposterà inevitabilmente le masse verso di noi. Non così però siamo favorevoli alle attuali manovre per la fusione delle due Internazionali sindacali, perché avendo l’Internazionale bisogno di un centro di concentrazione delle forze sindacali comuniste ed avendo già risolto tale problema con la creazione dell’I.S.R. [Internazionale sindacale rossa] invece che con la costituzione di una sezione sindacale dell’I.C., non vediamo le ragioni rivoluzionarie che consigliano tale radicale revisione di tattica, perché riconfermiamo ad Amsterdam la funzione di agenzia della borghesia, come ha pure recentemente dimostrato in occasione del piano Dawes, perché ancora il preteso rafforzamento della sinistra di Amsterdam, la quale rappresenta una necessità fisiologica di conservazione e di azione dell’Internazionale stessa, si risolve in una liquidazione dell’Internazionale sindacale rossa. Mentre però avversiamo la fusione organizzativa delle due Internazionali, siamo favorevoli ad un’azione di fronte unico per questioni concrete da perseguire nella due Internazionali che provenga dal basso.

 

E) Questione nazionale ed agraria

 

Riconfermiamo la nostra piena approvazione delle tesi dettate da Lenin al II Congresso dell’Internazionale Comunista, pur facendo delle riserve sulla applicazione pratica che di esse viene fatta in molti casi.

 

F) Questione Trotsky

 

Respingiamo l’impostazione della questione come è stata fatta dall’I.C. e dalla nostra Centrale poiché la questione sollevata nella prefazione al “1917” investe la condotta dei vari gruppi del Partito Comunista Russo nell’ottobre del 1917 e sui criteri della politica dell’I.C. soprattutto negli avvenimenti di Germania e Bulgaria e non i problemi della rivoluzione permanente, sulla funzione dei contadini, ecc. ecc. Sul primo punto di capitale importanza rivoluzionaria si è scivolato, mentre artatamente si è creata la questione Trotsky richiamandosi al suo vecchio dissenso con Lenin e alla sua condotta su quelle questioni anteriori al 1917, la quale Trotsky ha ripudiato non soltanto a parole. La Sinistra è con la posizione di Lenin nelle suaccennate questioni, mentre logicamente si compiace del fatto che un capo rivoluzionario come Trotsky abbia fatto sue alcune importanti posizioni critiche e polemiche della Sinistra Italiana.

 

Per l’impostazione della questione Trotsky e per la sua esauriente trattazione richiamiamo l’articolo di Amadeo Bordiga che dovrebbe essere pubblicato sulla stampa del partito.

 

G) La nuova tattica

 

La tattica seguita dall’I.C. nelle elezioni presidenziali tedesche (proposta di mantenimento della candidatura Braun) e quella annunziata dal Partito tedesco che ha provocato la formazione di una tendenza di sinistra nel Partito Comunista T. (Rosenberg e un quarto del partito) e nelle elezioni amministrative di ballottaggio in Francia (tattica di Clichy) è una conferma ancora più inoppugnabile delle posizioni teoriche della Sinistra e del giudizio da noi dato sulla cosiddetta sterzata a sinistra del V Congresso, perché nel mentre si assume la difesa del principio leninista che la socialdemocrazia sia l’ala sinistra della borghesia e non l’ala destra del proletariato, si viene con essa a compromessi, sul terreno più pericoloso dell’opportunismo controrivoluzionario e cioè dell’elettoralismo.

 

Devesi invece negare energicamente che i Partiti Comunisti possano agire per la formazione di governi borghesi di una o di un’altra tendenza, anche se può talvolta essere vero che con un governo socialdemocratico la libertà di azione del partito possa essere più ampia, in quanto la borghesia regola le questioni fondamentali del potere secondo le sue esigenze di classe e quindi affida il governo a chi meglio rappresenta la sua difesa. L’esperienza italiana ad esempio insegna che il democraticissimo Governo Nitti fu in sostanza quanto di meglio la borghesia poteva esperire in sua difesa, e quindi quanto di più reazionario.

 

H) Giudizio sull’attività passata del Partito Comunista d’Italia

 

Si richiamano le tesi, mozioni ed articoli della Sinistra per la conferenza nazionale del Maggio 1924 pubblicate su Stato Operaio dell’epoca.

 

La Sinistra riafferma la bontà dell’indirizzo impresso al partito dalla Centrale e letto ai Congressi di Livorno e di Roma e liberamente applicato fino allo sciopero generale dell’agosto 1923.

 

La politica seguita da allora per volontà dell’Internazionale e di cui questa affidò alla nuova Centrale nominata nell’Allargato del giugno 1923 e riconfermata al V Congresso coi suoi risultati ha confermato le opinioni e le critiche nostre.

 

La tattica verso il partito massimalista ha condotto alla stentata fusione con la piccola frazione terzina, sproporzionata agli sforzi compiuti e il cui bilancio dimostra come sarebbe stata più utile l’assimilazione per mezzo di adesioni individuali proposte dalla Sinistra.

 

Su questa tattica il partito massimalista ha speculato per rallentare la sua liquidazione agli occhi delle masse rivoluzionarie, tanto più in quanto anche oggi si accenna ad amoreggiare con una nuova sinistra del partito stesso. L’azione della Centrale attuale ha la caratteristica generale dell’incertezza, dell’improvvisazione sostituita ad una chiara e ferma direttiva, dell’equilibrio posticcio fra le opinioni occasionali di gruppi eterogenei e per diverse ragioni inadeguati al loro compito di dirigenti, della meccanicità sterile, della disciplina messa al posto dell’iniziativa convincente e del fermo governo del partito necessari al lavoro rivoluzionario.

 

Nella crisi Matteotti il partito esitò e ritornò sui suoi passi, non sapendo sfruttare la situazione favorevole che permetteva non certo l’abbattimento della borghesia ma il passaggio del partito su una posizione più avanzata e decisa della lotta autonoma della classe operaia. Errore madornale fu l’azione parallela nei giorni decisivi a quella delle opposizioni col partecipare al comitato parlamentare di esse. La Centrale sentì troppo tardi e male la originalità della posizione del partito e la sua netta contrapposizione a quella delle pregiudiziali morali e costituzionali degli aventiniani.

 

Nella successiva tattica parlamentare la Centrale fu rimorchiata sulla via giusta solo dalla decisa pressione della periferia e della sinistra e per gli stessi motivi aveva indovinato nella partecipazione alle elezioni, errando solo nel sostituire la formula infelice di liste dell’unità proletaria a quella di liste del Partito Comunista. Commise però altro errore con la proposta del Parlamentino delle opposizioni, laddove avrebbe dovuto agire nel senso di sviluppare la politica autonoma del proletariato contro i gruppi borghesi successivamente smascherati non dalla tattica del Partito Comunista o dai suoi assaggi ma dalla stessa vivente esperienza degli ultimi anni, e avrebbe dovuto sottolineare gli elementi classisti, antipacifisti, anticostituzionali, antidemocratici dell’intervento del terzo fattore proletario.

 

Inadeguata, e rivelante una scarsa fedeltà alla ideologia comunista, è stata tutta la critica delle opposizioni e molte volte anche la critica del fascismo.

 

La stampa del partito e il linguaggio di tutte le sue manifestazioni sono inferiori all’attesa delle masse, inadeguati al compito di un partito rivoluzionario o alla tensione delle situazioni attraversate. Il legame delle azioni con i principi è rilassato e risente dell’egemonia artificiale di un gruppo, quello ordinovista, le cui origini recenti da atteggiamenti dottrinali estranei al marxismo, mai rettificati da una giusta posizione esteriore alle lotte del proletariato torinese, lasciano molta strada da fare sulla via difficile che può condurre da un rivoluzionarismo idealista, individualista, liberale, letterario, alla teoria e alla pratica rivoluzionaria classista, strada che non può essere colmata da una ortodossia verso l’Internazionale Comunista fatta solo di adesioni formali ai successivi deliberati, di una difesa occasionale e contingente di questi che non rileva nessun contributo sostanziale e sistematico.

 

Una manifestazione delle deficienze di questa tendenza sta nell’abuso di parole d’ordine, sterili, incomprese, cadenti nel vuoto, che prospettano sempre nuove formazioni organizzative e “costituzionali” delle forze operaie che si vorrebbero improvvisare per farne materia delle cosiddette “campagne” nelle quali si vede spezzettata l’azione del partito. Una parola d’ordine nasce dai rapporti reali delle forze sociali e politiche in lotta e non può consistere in una formula di organizzazione, se non in quanto si riferisce ad organizzazioni ben note alle masse; già fatto storicamente la loro prova in altri paesi. Questa critica pregiudiziale vale per tutte le proposte sulla costituzione dei Comitati Operai e Contadini, Consigli di Fabbrica, Comitati di Agitazione, ecc. ecc. che non sono da respingere ma dalle quali dovrebbe esigersi la specificazione dei compiti di tali organi in rapporto a precise esigenze delle masse sollevate dalle situazioni e dovrebbe scartarsi ogni carattere di rimpiazzo degli organismi esistenti, come ogni carattere di coalizione eventuale con altri partiti politici.

 

In mancanza di una più vivente e serrata direttiva della politica del partito, tutte queste campagne servono non a smuovere e conquistare, ma a stancare e deludere le masse.

 

Nello sciopero metallurgico il partito ha lasciato sfuggire una occasione in cui poteva e doveva, tenendo il passo degli avvenimenti, senza minacciare la unità sindacale, parlare direttamente al proletariato assumendo e rivendicando la direzione della lotta anche da parte del partito di classe — solo in Italia anche per la evidenza degli aggruppamenti politici attuali — non certo per la conquista del potere ma per segnare una tappa più importante della riscossa proletaria.

 

Tutti i difetti delle attività e di iniziativa della Centrale del Partito verso l’esterno si riflettono nell’eccesso di interventi e lavori nell’interno del partito. Gli impegni assunti dalla sinistra al V Congresso e rispettati con fedeltà che deriva dalla lealtà nostra e non da una superiorità che manca del tutto alla Centrale verso la periferia, erano di lavorare ai posti di esecuzione su tutto il fronte del partito, non partecipando alla direzione politica centrale, riservata ai fautori convinti della tattica dell’Internazionale. Questi rapporti sono stati denunziati dalla Centrale che ha voluto aprire un’offensiva mascherando il suo desiderio di eliminare da ogni influenza sui compagni gli esponenti della sinistra con un invito a questi a collaborare alla direzione centrale.

 

Con le ultime circolari, con la ingiustificata destituzione di organi locali tenuti da compagni della sinistra, con mille forme poco rispettabili di lavoro interno che vanno definite non come dittatura ma come giolittismo, la Centrale ha cessato dì funzionare come una Centrale di Partito per funzionare come un Comitato di frazione, e tale merita di essere considerata.

 

I) Compito del Partito Comunista in Italia

 

Sulla scorta delle sue opinioni sulle questioni generali, delle critiche fatte all’indirizzo attuale, dei programmi di azione presentati al IV e V Congresso dell’Internazionale, la sinistra presenterà un completo programma di lavoro del partito. Pronta a lavorare con ubbidienza sul fronte del partito a quel qualunque programma diverso che fosse deliberato dal Congresso o dovuto — a buon diritto — dalla Internazionale anche contro il parere della maggioranza del Congresso Italiano, la sinistra prenderebbe il potere del partito ove si trattasse di realizzare il programma integrale da essa proposto con ampia prospettiva di sviluppo nell’avvenire. In ogni caso la sinistra si rifiuta di considerare come questione centrale quella dei posti negli organi direttivi, come respinge sistematicamente ogni personalizzazione della questione e sua riduzione al giudizio sul contegno dei singoli compagni.

 

La questione della composizione della Centrale va subordinata a quella del programma di azione avvenire, che a sua volta nasce dal giudizio sulla esperienza passata e sulle questioni generali del metodo: il dibattito non deve essere spostato da questo terreno con manovre atte a sorprendere i compagni tenuti all’oscuro e che si limitano, nella stragrande maggioranza, ad intuire sicuramente che il partito è mal diretto e che agli errori e alle deficienze deve porsi rimedio.

 

La sinistra considera poi fermamente che una soluzione soddisfacente della questione del partito italiano è impossibile al di fuori della soluzione delle questioni internazionali e ritiene queste già tanto gravi che, senza porre in dubbio il diritto dell’Internazionale a regolare le cose dei singoli partiti, deve considerarsi insufficiente l’escogitare una soluzione empirica provvisoria dei rapporti tra Partito e Internazionale sulla base dei compromessi fra gruppi e, peggio, fra persone.

 

Dichiarazione dei componenti il Comitato d’Intesa

 

Allegato ai documenti inediti dell’archivio di Jules Humbert-Broz, rappresentante dell’Internazionale comunista

 

Intervenendo nella situazione creatasi nel nostro partito, il Presidium dell’Internazionale Comunista ci ha intimato, ravvisando nel Comitato d’Intesa il nuce di una frazione costituita in seno al partito, di scioglierlo sotto pena della espulsione.

 

Il Presidium, pur annunziando la connessione della piena libertà di dibattito precongressuale, nulla dice sulle formali accuse di frazionismo e settarismo interno da noi portate contro la Centrale del partito italiano e nessuna misura o denunzia diretta ad eliminare le vere cause della crisi del partito.

 

Ciò non ci meraviglia perché dobbiamo dolorosamente constatare di essere dinnanzi ad una nuova tipica applicazione dei metodi di dirigenza della Internazionale che abbiamo combattuti e combatteremo. L’essere disposti a sostenere nei congressi e nei dibattiti il punto di vista e l’operato dei compagni che fanno parte degli organi direttivi internazionali è titolo che sana ogni errore ed ogni colpa nella lotta contro l’avversario borghese e trasforma ogni deficienza anche la più scandalosa in un brevetto di puro rivoluzionarismo bolscevico e leninista. I metodi disgregatori della Centrale italiana sono coperti dai dirigenti dell’Internazionale perché noi siamo all’opposizione su vari punti della loro politica.

 

I provvedimenti che reclamerebbe la difficile situazione del partito e la tensione interna cui ha condotta la sleale campagna organizzata dalla Centrale contro il Comitato d’Intesa si riducono alla meccanica formalistica di una disciplina che non convince e non si fa rispettare. Il grave problema delle tendenze e frazioni nel partito che si pone storicamente come una conseguenza della tattica politica che esso segue è una riprova della convenienza di essa, che è al contempo un sintomo delle sue deficienze da accogliere con la massima attenzione, si pretende di superarlo con le intimidazioni e le minacce, con l’assoggettare alcuni compagni alle solite compressioni disciplinari, lasciando credere che dalla loro condotta personale dipenderà tutto lo sviluppo successivo del partito.

 

Secondo questo metodo, antimarxista nella sostanza, sterile nei risultati, noi potremmo, a somiglianza di tanti elementi infidi e opportunisti che manovrano sui margini della nostra gloriosa Internazionale, cominciare a negoziare e patteggiare col centro dirigente, porre delle condizioni, fare a nostra volta minacce, raggiungere un compromesso e una transazione simili a quelle che sono il prodotto della spregevole pratica parlamentare borghese. Con queste convenzioni più o meno laboriose e stentate tra personaggi e “uomini politici” più o meno influenti si vanno da tempo dissimulando e dilazionando gravi problemi della vita dell’Internazionale e della sua azione che inevitabilmente si ripresentano più difficili e gravi. Noi potremmo a nostra volta far pesare la minaccia di una scissione e della formazione di un nuovo partito in caso di espulsione e sulle bilance della “politica” sedicente comunista sarebbero saggiate le nostre possibilità di avere tanta più soddisfazione quanto più male ci mostrassimo in grado di fare al partito e all’Internazionale.

 

Ma noi non agiremo in tal modo. Spontaneamente intendiamo la disciplina in modo infinitamente diverso. Come non esitammo a rinunziare alla dirigenza del partito così non ci sentiamo spinti dalle ripetute provocazioni della Centrale alla miserabile risposta di fabbricare un partitino dissidente ad uso e consumo di un gruppo di dirigenti a spasso. Dinnanzi ad una materiale imposizione noi ci ricordiamo di tenere soprattutto al nostro posto di gregari del partito comunista e dell’Internazionale che conserveremo con volontà di ferro, senza rinunziare giammai ad opporci con una critica instancabile a quei metodi che consideriamo contrastanti con l’interesse e l’avvenire della nostra causa.

 

Noi accusati di frazionismo e di scissionismo dinanzi alla eventualità di una rottura col partito sacrificheremo alla unità di esso le nostre opinioni, seguendo una intimazione che consideriamo ingiusta e dannosa al partito. Con questo dimostreremo come noi della sinistra italiana siamo forse i soli per cui la disciplina è una cosa seria e non commerciabile.

 

Noi riaffermiamo tutte le precedenti manifestazioni del nostro pensiero e tutti i nostri atti. Noi neghiamo che il Comitato d’Intesa fosse una manovra mirante alla scissione del partito e alla costituzione di una frazione nel suo seno, ma protestiamo ancora per la campagna svolta su questa base senza darci il diritto alla difesa e ingannando scandalosamente il partito.

 

Tuttavia poiché il Presidium crede che l’imporci lo scioglimento del Comitato d’Intesa sia un passo che allontana il frazionismo, noi pur essendo di parere contrario, ubbidiremo; ma allo stesso tempo dobbiamo lasciare al Presidium la responsabilità intera degli sviluppi che prenderà la situazione interna al partito e delle manifestazioni che sorgeranno dallo stato d’animo di reazione determinato dalla maniera con cui la Centrale ha amministrato la vita interna del Partito, manifestazioni che il Comitato d’Intesa incanalava e disciplinava in una via utile al partito e al suo felice avvenire. Noi crediamo che il vantato stroncamento del Comitato d’Intesa non farà che fomentare nel partito il frazionismo da noi non voluto e che potrà prendersi nostro malgrado le sue vendette. È vero che abbiamo ricevuto l’affidamento che tutte le sanzioni disciplinari prese contro i compagni aderenti al Comitato d’Intesa, tra cui l’espulsione del compagno Girone e tutta una serie di destituzioni dalle cariche, verranno annullate e che la libertà di discussione per il congresso sarà assoluta. Ma libertà di discussione significa discussione a parità di diritti e di mezzi, e se ne avrebbe garanzia seria solo ove fossero accettate le proposte fatte da noi a suo tempo alla Centrale, di cui non si fa più parola. Non dovrebbe essere lecito tenere i congressi federali prima di un dibattito sulla stampa e della pubblicazione delle tesi e mozioni proposte dalle varie tendenze, mandare ai congressi stessi un rappresentante della corrente ligia alla Centrale e dire sul conto della sinistra tutte le cose che si sono andate stampando in questi giorni senza che un compagno ugualmente al corrente degli elementi del dibattito possa controbatterle.

 

Né sarebbe ammissibile presentare sul giornale del partito, cioè di tutti i compagni, gli articoli e le dichiarazioni di taluni con cappelli e commenti più o meno tendenziosi e giornalisticamente messi in scena, mentre da parte nostra non si può né si vorrebbe certo fare altrettanto con gli scritti di altre correnti. Ma noi non patteggiamo la difesa di queste garanzie e rinunciamo, pur non avendo fiducia che verranno date, ad assicurarle mediante il nostro lavoro di controllo, solo scopo del Comitato d’Intesa. I compagni giudichino se queste domande erano opportune e difendano da sé come possono il partito dall’impiego di metodi che abbiamo dovuto definire di giolittismo, tendenti a falsare i risultati della sua consultazione. Il Comitato d’Intesa, dopo quest’ultima manifestazione, è disciolto. Desisteremo da ogni lavoro di collegamento e di diffusione di nostri testi ai membri del partito, nonché di riunioni indipendenti da quelle indette dagli organi del partito. Bene inteso questo non vuol dire rinunziare all’ovvio diritto per il gruppo di compagni che possono considerarsi come gli esponenti della sinistra ad affiatarsi per il lavoro puramente teorico della discussione ed allestimento delle tesi conclusive, lavoro i cui risultati sono destinati ad apparire esclusivamente sulla stampa del partito.

 

Malgrado la virulenza cui è giunta la Centrale noi ci sforzeremo di portare il dibattito all’altezza dei compiti del partito e di dare ai compagni la nozione completa dell’orientamento della sinistra sulle diverse questioni evitando personalismi e pettegolezzi. Ci auguriamo di non dover continuare indefinitamente a rettificare le asserzioni inesatte sul nostro conto e ridurre il dibattito sulla politica della Centrale nella situazione italiana alla cronachetta poco edificante della sua attività interna: ma se a tanto saremo costretti ci auguriamo che cessi il boicottaggio delle lettere di rettifica e protesta che abbiamo dovuto rinunciare a denunciare ai compagni per altra via che quella della stampa del partito. L’ulteriore abuso di questi mezzi condurrebbe a conseguenze di cui già abbiamo nettamente rifiutato ogni corresponsabilità.

 

I compagni giudicheranno il nostro operato. A noi non importa acquistarci una loro adesione o simpatia superficiale e accumulare voti per il congresso, ma giungere a portare il dibattito e la coscienza del partito un poco più oltre degli atteggiamenti superficiali e meschini su cui si specula quando ci si vuole togliere con poca fatica il fastidio di vedersi discussi e criticati. Se si vuole continuare ad organizzare invece l’inganno demagogico e industrializzare il confusionismo e lo smarrimento, si faccia, ma non si creda di costituire nulla di stabile: il male al partito resterà ma non si salverà la posizione dei gruppi e gruppetti artefici di un metodo così politicantesco, scenario volgare destinato a cadere ben presto lasciando vedere i pericoli dell’opportunismo e della degenerazione del partito. Contro i quali condurremo sempre, senza riguardi e senza riserve, una lotta spietata, sicuri che la immensa maggioranza dei comunisti italiani si leverà come un solo uomo quando la minaccia ed il pericolo si facessero incombente realtà, spazzando il misero gioco degli arzigogoli e dei diversivi, non per dividere il partito, ma per condurlo intatto e compatto sulla via che gli è segnata.

 

Luglio 1925 — Firmato A. Bordiga, B. Fortichiari, O. Damen, F. Grossi, U. Girone, La Camera, M. Lanfranchi, M. Manfredi, O. Perrone, L. Repossi, C. Venegoni.


 

 

I tardi epigoni



“Chierici” che han sempre tradito

 

È un mondo strano questo dei chierici dell’intellettualismo che vorrebbe essere il mondo dello spirito, della dottrina e della sensibilità estetica, ma che visto in termini di socialità e di politica è il più delle volte un povero e piccolo mondo di invertebrati e come tali costituzionalmente forniti di intelligente e inesauribile capacità di adattamento all’ambiente e alle mutevoli vicende del suo clima.

 

È proprio per questa particolare natura di sentirsi sicuri soltanto se appiccicati come parassiti sul corpo d’un organismo ben saldo e ben concimato, e al contrario di mostrarsi stranamente irrequieti, instabili e se occorre anche ribelli se dallo stesso organismo più non succhiano certezza di alimento e di stabilità di vita, che questi nostri chierici appaiono oggi come coloro che più e meglio sensibilizzano il marasma e lo smarrimento della nostra borghesia.

 

Non li abbiamo forse visti, “fascia littoria” e “mistica fascista” trepidi al gesto mussoliniano verso il mare nostrum e le conquiste d’oltre questo mare, declamanti la fortuna d’un ritornante impero e poi non li abbiamo forse visti, fiutato il declino del Duce, trasformarsi in arcieri impareggiabili nel lanciare ponti verso l’antifascismo militante e particolarmente verso le più sicure milizie dell’antifascismo, quelle al seguito di Palmiro Togliatti?

 

Camminano ora sull’onda del neoumanesimo fecondante lo sforzo proletario proteso alla ricostruzione nazionale; incarnano le molteplici istanze del realismo socialista in arte come in filosofia, come in politica e poi… ecco il crollo di questo mondo di cartapesta fatto di “partigiani della pace”, di raccolta di firme e di felicità sovietiche; muore Stalin, ecco il discorso di Kruscev, ecco le rivolte in serie di nuovi “Spartaco” da Vorkuta a Berlino Est, da Poznam all’Ungheria dove l’azione dei carri armati sovietici aveva distrutto nelle strade di Budapest e nei maggiori distretti industriali e minerari dell’Ungheria i fortilizi del proletariato insorto.

 

I chierici fiutano il mare procelloso, il vento infido e drizzano la barca del loro ingegno verso lidi più sicuri e spiagge più assolate.

 

Danno ogni volta l’impressione di essere sospinti nel loro operare da ragioni ideali ma ogni volta obbediscono al richiamo del tornaconto individuale che non appare mai nel suo vero volto di grettezza ma in termini ora di crisi spirituale ora della personalità umana offesa, la loro personalità.

 

Ma se questa è la malinconica constatazione che denuda e avvilisce più generazioni di scrittori e di artisti che sono pur sempre la più alta espressione di questo mondo della cultura e dei suoi valori umani, tuttavia non tutti quelli che sono apparsi o appaiono come veri trasfughi della borghesia, non tutti diciamo, hanno ripassato a ritroso il solco della divisione di classe.

 

Ma perché il trasfuga della borghesia passato dalla parte del proletariato sia considerato sulla linea storica della rivoluzione socialista bisogna che si svesta della presunzione di portare lui, in nome della dottrina, delle più recenti formulazioni teoriche di filosofia e di economia, in nome degli assoluti della tecnica espressa dalla seconda rivoluzione industriale e della nuova fase storica aperta dall’epoca nucleare, e il dispositivo prefabbricato di un nuovo tipo di rivoluzione, un rinnovato neoumanesimo che assicuri all’uomo un rinascimento socialista senza scosse, senza sangue, senza barricate; una rivoluzione dello spirito che releghi in soffitta Marx e Lenin e con loro tutto l’armamentario del quarantottismo utopistico e barricadiero.

 

L’intellettuale diverrà elemento di classe nella misura che si sentirà operaio a fianco dell’operaio, militante del partito proletario animato dalle stesse ragioni ideali e capacità di lotta e di sacrificio che lo accomunano a tutti i combattenti della stessa milizia rivoluzionaria, in una parola nella misura che sentirà la sua coscienza all’unisono con la coscienza collettiva del proletariato.

 

Tra tanti intellettuali che deragliano perché rimasti dei piccoli borghesi scontenti e arrivisti; tanti ne abbiamo che sono rimasti al loro posto.

 

E quando l’intellettuale che milita nel movimento operaio contribuisce con un apporto personale all’elaborazione della dottrina di classe e alla conquista di nuovi spazi alla sua diffusione, ciò va inteso nel senso che egli non si limita ad esprimere una esigenza che gli è propria ma riflette nello strumento della sua cultura e d’una indagine scientifica, un momento della scienza e coscienza collettiva delle grandi masse e con i dati dell’esperienza della lotta operaia sempre nuova, sempre rinnovantesi, arricchisce e affina e perfeziona la teoria rivoluzionaria.

 

A questa sola condizione l’intellettuale rivoluzionario risponde alla sua funzione ed esprime pur con apporto singolo, le istanze della classe operaia che per ciò stesso è diventata la sua classe di elezione, la matrice ideale della sua coscienza d’uomo, della sua dottrina, della sua stessa vita.

 

A questa sola condizione si può parlare dell’intellettuale che per la causa del socialismo ha disertato la sua classe d’origine per sentirsi finalmente libero dai lacci del mondo borghese, come del sale che saporisce la vita quale che sia il terreno del suo svolgimento.

 

E questo ragionamento vale non soltanto per i sommi che hanno dato alla causa del proletariato tutta una vita dedicata allo studio dei fenomeni del capitalismo moderno ed alle lotte del lavoro da Marx a Lenin, da Engels a Trotsky, ma anche per quell’esercito di intellettuali che hanno rotto con la borghesia ed hanno portato il loro contributo modesto, disinteressato e per lo più anonimo alla stessa causa.

 

C’è anche l’operaio-intellettuale che dopo una dura giornata di lavoro nell’officina, negli uffici o nei campi vuol rintracciare nei libri, nelle riviste, nei saggi di varia cultura una ragione ideale, un indirizzo, una previsione teorica, una disciplina metodologica che possa illuminare quel particolare problema pratico, che confermi l’esattezza o meno d’una esperienza, dia la risposta a istanze e precisi il filo conduttore tra teoria e pratica, tra il mondo reale e mutevole della determinazione e il mondo riflesso della giustificazione teorica.

 

Si tratta in genere di modesti compagni di lavoro che quando si rivelano al compagno che gli vive accanto gli aprono cuore e intelligenza e lo aiutano a risollevarsi dalla fatica e dalla sofferenza comuni ad entrambi per fissare insieme problemi che sono propri di tutti coloro che vivono la stessa quotidiana fatica, la stessa quotidiana sofferenza; per aprire insieme orizzonti di comprensioni nuove e sentire nella sua interezza la loro vera e viva personalità di classe che ora finalmente sa e perciò vuole e osa. In questi casi gli intellettuali, quale che sia la loro provenienza sociale, possono essere il sale quotidiano della rivoluzione. Non intellettuali per il proletariato ma del proletariato, non penna al servizio della propria ambizione per esaltare i regimi ma strumento, come la zappa per il contadino, come il tornio per il metallurgico, perché anche lo scrittore, il poeta, lo scienziato, non dispongono come vogliono del mezzo o strumento della loro fatica quotidiana, ciò che indica chiaramente lo stato di soggezione e di sfruttamento a cui l’arte e la scienza sono di fatto sottoposti.

 

L’intellettuale “organico” idealizzato da Gramsci, imposto nella conduzione strutturale del partito e nell’indirizzo della sua politica, è visto come mediatore e nel contempo artefice indispensabile d’ogni passaggio da una scissione all’altra nel corpo sociale e politico della rivoluzione passiva, divenuto prima organizzatore politico nell’apparato di partito o degli organismi collaterali e dal suo operare si fa dipendere la crescita della sua influenza e conseguente dilatazione del consenso elettorale.

 

In questa fase gli intellettuali organici, pervenuti ai vertici del partito aggiungono alla funzione di dirigenza quella del dirigente nell’apparato dello stato. Lo sviluppo ulteriore di questo processo darà agli intellettuali lo stesso compito che avevano già avuto nei quadri del partito, di amministrare nella sua funzione di cerniera, mediando il passaggio dal regressivo al progressivo, osmosi inevitabile che porterà ad assumere in proprio il compito costituzionalmente repressivo che si riduce all’egemonia d’una élite esercitata in nome d’una classe, quella proletaria, sempre più subalterna entro le ferree maglie del potere capitalista.

 

E il consenso delle grandi masse? Se tradotto in termini di consenso elettorale con fine di allargare l’influenza sulla base quantitativa di voti nell’ambito del parlamentarismo e del potere, è prassi della più vieta e sporca democrazia parlamentare quindi soggetta ai mutevoli umori e suggestioni che percorrono l’intero corpo elettorale anche dei paesi di più progredita e di più avanzata democrazia parlamentare sotto la spinta ora emotiva, ora clientelare, alimentata sempre e abbondantemente dal prepotere del capitale finanziario. Le forze politiche, quali che siano le loro bandiere, installate nell’orbita del potere anche se all’opposizione, obbediscono alla logica dei regimi parlamentari la cui maggiore preoccupazione e prospettiva è quella di curare, mantenere e possibilmente aumentare la propria base elettorale, ciò che autorizza il termine spregiativo di cretinismo parlamentare e accomuna la pratica del PCI nella fase della sua maturità.

 

Se tradotto in termini di classe il consenso valido è quello del proletariato, elemento attivo e determinante, nella misura che dal suo seno si sprigionino teoria, pratica ed organizzazione condensate nel suo partito, lo strumento idoneo a fare della violenza rivoluzionaria di tutta la classe operaia, la vera e salutare levatrice della storia. In conclusione due strade diverse e avverse: l’una, quella indicata da Gramsci che non va oltre la rivoluzione passiva e la guerra di posizione e l’altra, indicata dal marxismo scientifico che chiuderà l’epoca storica del capitalismo con la rivoluzione attiva e la guerra di movimento.

 

Empirismo e prevaricazione

 

Che significa “applicare Marx”? È il titolo di un emblematico articolo dovuto alla penna di Umberto Cerroni. Rispondiamo con un lapalissiano aforisma: applicare Marx è proprio di chi è marxista tanto sul piano della teoria che su quello della sua applicazione pratica; chi non applica Marx non è marxista e non può né deve definirsi tale. Tuttavia è doveroso chiedersi perché e soprattutto per chi un tale e smaccato processo di contaminazione del marxismo è portato a questo punto, ad un grado di patologia politica. È la conseguenza di una disinformazione o di una infrenabile smania intellettualistica di cavalcare il paradossale per fare sfoggio di originalità, bruciando le tappe d’una lenta, difficile conquista d’una dottrina, quella marxista, la sola che abbia usato il bisturi della conoscenza critica nelle carni e nelle strutture ossee dell’economia capitalista, dal suo sorgere all’attuale sua decadenza? Oppure obbedisce all’imperativo che incombe sulla situazione, quello cioè di slegare da ogni presupposto teorico la linea politica di partito, il PCI, preso nei tentacoli della piovra capitalista da cui non può né vuole liberarsi?

 

E l’uno e l’altro insieme e l’autore, non volendo, dà la prova della verità marxista contro cui si spunta il tentativo revisionista che vuole che non esista unità di teoria e pratica, dandosi la zappa sui piedi quando si serve proprio della teoria per avallare la legittimità d’una prassi politica in atto, quella del compromesso storico che si vorrebbe non deviante dalla concezione marxista basata sul rapporto dialettico tra teoria e pratica da cui scaturisce quell’unità che si vorrebbe negare. Negando questo rapporto di unità, che è rapporto di interdipendenza tra i due termini, si tende a spezzare il filo conduttore dell’interpretazione dialettica della storia, per aprire la strada ad una valutazione del tutto empirica, e di un rozzo materialismo che porta dritto dritto ad una concezione riformista della storia.

 

Non si applica Marx? Ma neppure Gramsci! Messi sulla via della ricomposizione del marxismo, del suo atteggiamento e adeguamento alle esigenze del momento storico, a prescindere da ogni presupposto teorico, i discepoli di Gramsci procedono in senso contrario non solo nei riguardi del marxismo ma dello stesso insegnamento di Gramsci (per ironia della storia Umberto Cerroni è anche membro del Comitato direttivo dell’Istituto Gramsci che ha come compito quello di difendere e divulgare il pensiero del maestro in corrispondenza con l’applicazione fattane nel partito, nel parlamento e tra le masse operaie).

 

Vediamone i termini precisi. Scrive Cerroni, ritornando sul problema del rapporto tra politica e teoria e specificamente tra politica comunista e teoria marxista:

 

che è impossibile di considerare il marxismo come apparato dottrinario del quale si è tenuti puramente e semplicemente a fare “applicazione”. [1]

 

Posto così il problema, che spezza il nesso tra teoria e prassi politica, si svuotano d’ogni serio contenuto e credibilità le due formulazioni nodali in cui si condensa tutta la tematica gramsciana: “blocco storico” e “storicismo assoluto” oltre ciò, quello che resta del pensiero di Gramsci si riduce a ben poca cosa. Contro il riemergere di certo empirismo di origine positivista lo stesso Gramsci avrebbe reagito ammonendo con durezza:

 

Insomma deve sempre vigere il principio che le idee non nascono da altre idee, che le filosofie non sono partorite da altre filosofie ma che esse sono espressioni sempre rinnovate dello stesso sviluppo storico reale […] Se ne deduce […] che ogni verità […], se non è esprimibile in lingue particolari, è un’espressione bizantina e scolastica. [2]

 

Non si perviene al culmine del suo storicismo assoluto senza l’unità di storia e filosofia. Per questa unità “storia e filosofia sono inscindibili, formano blocco”.

 

A che cosa si ridurrebbe allora la creazione del blocco storico, sempre nel linguaggio gramsciano e nella sua visione immanentistica, senza una adesione organica di componenti diversi, realizzazione d’una vita di insieme che “solo è forza sociale”?

 

Si lega a questa impostazione l’altra “scoperta” teorica, tipica d’ogni revisionismo nell’arco storico del socialismo, da quello utopistico a quello scientifico, che afferma:

 

l’impossibilità di considerare il marxismo come un qualsiasi apparato dottrinario del quale si è tenuti puramente e semplicemente a fare “applicazione”. Intanto non pare che tutto nel materialismo sia pacifico, né che tutto sia concluso. Abbiamo molte e difformi interpretazioni del pensiero di Marx, che si sono sovrapposte per stratificazione in epoche diverse e sotto stimoli pratici diversi. [1]

 

È tipico della tendenza più marcata all’eclettismo, che contraddistingue la cultura oggi dominante, che guarda al contingente, al vario e al molteplice che caratterizzano la democrazia progressiva e pluralistica, il non saper distinguere in un quadro dottrinario ciò che vi è essenziale e ciò che è del tutto secondario e marginale nella sua traduzione in termini di pratica politica.

 

In questi neorevisionisti, tipo Cerroni, l’empiria arriva fino a porre sullo stesso piano di esperienza rivoluzionaria episodi che non hanno alcuna matrice di classe e alcun obiettivo rivoluzionario.

 

E un ritorno alla concezione prioritaria delle nazioni in una fase in cui economia e politica tendono al dominio del mondo, al superamento della politica che non va oltre l’uscio di casa. Si ha il particolare al posto dell’universale, un cammino a ritroso nella storia delle cose e degli uomini. Si rifà, a dimostrazione del suo assunto, alle più grandi e originali realizzazioni del socialismo marxista la cui caratteristica comune è quella di “rompere con la tradizione della precedente pratica politica”. E un madornale errore storico e un saggio di infantilismo politico considerare come rivoluzionario e per di più legato alla tradizione teorico-politica del marxismo, lo svolgimento dei fatti verificatosi alla fine della guerra imperialista che, in quanto imperialista, imponeva una risistemazione d’un mondo sconvolto fatto a immagine e somiglianza delle forze e degli interessi del capitale, cioè del capitale finanziario, che era stato forza motrice della guerra e doveva, per forza di cose, continuare ad essere forza motrice della pace. L’antidoto ai principi e alla prassi politica della dittatura non poteva non essere che il principio della democrazia parlamentare, la faccia nuova dello stesso dominio imperialista sotto l’egida delle grandi banche a raggio mondiale. Parlare di rivoluzione e di socialismo marxista riferendosi al secondo dopoguerra nella avanzata fase decadente del capitalismo, alle forme istituzionali, proprie del capitalismo di stato, è sognare ad occhi aperti, è mistificare la realtà. Le rivoluzioni cinese, iugoslava e cubana all’esame della più elementare critica marxista non hanno né la struttura, né i caratteri, né la ideologia che sono storicamente propri d’una rivoluzione iniziata e portata avanti dal proletariato, non inquinato dal nazionalismo e dal prevalere di stratificazioni subalterne mediate dagli intellettuali.

 

Punctum saliens del ragionamento del Cerroni è l’accenno, rivelatore di tutta una tematica socialdemocratica, alla Rivoluzione d’Ottobre,

 

la quale si sarebbe compiuta “violando” due principi consolidati della tradizione “marxista”; quello che la rivoluzione operaia può avvenire soltanto nei paesi capitalisti evoluti e quello che una società socialista non può essere ipotizzata in paesi in cui il capitalismo non si è ancora pienamente sviluppato. [1]

 

Così si da palesemente ragione a Kautsky contro Lenin per un ritorno nostalgico alla ideologia e alla pratica politica prevalente nella II Internazionale; in una parola è colpa del proletariato russo di essere insorto e di avere prematuramente spazzato via il potere del capitalismo russo.

 

E allora c’è da chiedersi se i fondamenti teorici, di tattica e strategia rivoluzionaria che Marx ha preso dalla Comune di Parigi e Lenin dalla rivoluzione del 1905 e su cui è sorto il Partito Comunista d’Italia a Livorno; se gli scritti di Lenin l’Imperialismo e Stato e Rivoluzione, se la teoria delle svolte brusche e dell’attacco all’anello più debole dello schieramento imperialista sono da considerarsi come effetto d’una improvvisa e isterica allucinazione o d’un colossale imbroglio ordito dalla diabolica mente di combattenti della statura di Lenin e di Trotsky. È pur vero che in epoca di democrazia parlamentare anche e soprattutto i pigmei fanno storia.

 

In questo insensato furore iconoclasta non si risparmia neppure Gramsci.

 

L’essenziale del suo insegnamento, quello di Gramsci, non sta nella sua proposta politica concreta (e quale, poi? […] il moderno principe o la democrazia provvisoria di un’Assemblea Costituente?) ma invece nell’originale analisi complessiva che egli dà della società staliniana […] per un’opera di riambientazione storico-nazionale della teoria generale del capitalismo come già aveva fatto Lenin (siamo noi che riassumiamo il pensiero dell’autore con le sue stesse parole) che poté concepire la possibilità, sconosciuta a Marx, di una egemonia operaia della rivoluzione borghese in un Paese arretrato (contadino)!, ripensamento globale e analitico della storia del proprio Paese e sua rifusione critica nella prospettiva dell’emancipazione dei lavoratori. [1]

 

In una parola svuota, entro una parentesi di tre righe, il contenuto pratico-politico della sua peculiare essenzialità per ridurre la complessa, anche se contraddittoria, tematica gramsciana ad una riambientazione storico-nazionale.

 

E poiché ogni esame critico deve comunque arrivare ad una conclusione, il tentato accostamento di Gramsci a Lenin, che si dice costretti entrambi a pensare ed operare in modo diverso dal modello ideale scaturito dalla dottrina di Marx, i dati reali e inconfutabili della storia dicono che il partito di Lenin ha indicato alle masse lavoratrici la via dell’insurrezione armata solo quando ha ritenuto risolta l’omogeneità degli operai, soldati e contadiname povero nei Consigli per l’esercizio della dittatura (sintesi di teoria e pratica offerta dalla Comune di Parigi, 1871, e dalla Rivoluzione russa del 1905).

 

È la strada maestra che può ripugnare agli intellettuali del PCI, ma che rimane la sola possibile e che si conclude con la catastrofica fine del capitalismo imperialista. Il “modo diverso” di Gramsci non ha conclusioni perché tutto il suo mondo è una serie ininterrotta di “modi diversi” e forse la vera grandezza della sua opera sta in questo sforzo di ricerca di un “modo” che gli è sempre sfuggito, nell’ansia, mai placata, del cambiamento.

 

Allora in che cosa consiste, per Cerroni, Gramsci? Nel battere una strada completamente diversa da quella indicata da Marx nell’avere abbozzato la diagnosi

 

di una società capitalista italiana nella cui storia vivono stratificati e intrecciati depositi culturali molto diversi e nella quale assume un peculiare significato politico proprio la rivoluzione intellettuale e cioè la capacità di mediare e trasvalutare tutte quelle tradizioni la cui astrattezza fece, sì, la povertà politica dello stato ma anche la potenziale universalità della coscienza civile. [1]

 

Al limite la genialità di Gramsci consisterebbe in un’opera di studioso che intravede il filo conduttore della storia e lo segue in un processo di stratificazione e di intrecciati depositi culturali che dovrebbero costituire il supporto fondamentale e politico ad una supposta rivoluzione intellettuale di cui non si precisano i contorni ideali, il modo del suo realizzarsi sul piano concreto delle forme economiche e politiche e le forze sociali (forse anche quelle intellettuali?) che ne sarebbero le protagoniste-fantasma. In tutto ciò è evidente il tentativo di piegare e adattare Gramsci e la sua opera più di intellettuale che di politico nel letto angusto del revisionismo controrivoluzionario quale è oggi in atto nel partito che fu anche di Gramsci per quel tanto almeno che gli è dovuto come matrice ideale e politica del “partito nuovo” che si rifà al suo nome e al suo insegnamento. È proprio vero che i tardi discepoli hanno superato anche con la prevaricazione, la lezione appresa. E si precisano fino al loro compimento le responsabilità a cui Gramsci non si può sottrarre per aver dato vita ad un indirizzo teorico-politico che doveva portare il partito di Livorno con tutte le sue implicazioni di teoria e di pratica informate al marxismo rivoluzionario dal terreno originario della classe proletaria a quelle dell’avversario di classe, del capitalismo. Il centro del partito nato a Livorno poteva essere definito con acredine da Togliatti una fureria ma, aggiungiamo noi, fatta di operosità rigidamente marxista e leninista, nel clima formativo della Rivoluzione d’Ottobre che si trasformerà, con il congresso di Lione, in una fucina di degenerazione dottrinaria e politica che culminerà nel compromesso storico che ha per obiettivo fondamentale l’alleanza con forze che hanno per compito, questo sì, storico, di salvare il sistema di produzione basato sullo sfruttamento della forza lavoro contro cui si è battuto e si batte il socialismo tanto nella buona che nella cattiva stagione.

 

Questo compendio di una stagione politica di mezzo secolo della vita politica italiana non soddisfa un altro intellettuale, Alberto Asor Rosa, l’uomo dalle molte e spericolate esperienze politiche che scrive:

 

la ripresa della linea Labriola-Croce-Gramsci [in cui, si noti bene, Gramsci recita sempre più la parte del prosecutore, del “disviluppatore” degli elementi ideologici, che gli altri due pensatori avevano in realtà fondato] serve oggi tutt’al più per capire la nostra storia [quella del PCI] e, dunque, quel che siamo [fatto, certo, sempre e assai importante ma, aggiungiamo noi, non più sufficiente] per definire i termini di un rapporto tra il partito e i giovani in una fase di profondo cambiamento, da qui la ricerca di una diversa identità, d’una terza strada che si situi tra il radicalismo (settarismo, massimalismo, estremismo) e il moderatismo, sia pure di ispirazione riformista. [3]

 

Se è in crisi la linea Labriola-Croce-Gramsci, farsa teorica della politica picista, quale diversa identità dare al partito e quale terza strada da imboccare da un partito preso dalla frenesia ossessiva del gioco parlamentare per entrare nell’area del potere e pronto ad allearsi con chicchessia, fosse anche il diavolo, politicamente vestito di nero, il più qualificato per la difesa, anche armata, delle attuali istituzioni del sistema capitalista?

 

Basta guardarsi intorno [conclude con una sorta di timorosa prudenza, l’ex esponente operaista, rientrato poi nell’ovile con la elegante levità e disinvoltura, tipica dell’intellettuale che si diverte a giocherellare con le innovazioni da apportare al marxismo che considera ora troppo riformista, ora troppo rivoluzionario a seconda del variare delle situazioni obiettive] per rendersi conto che cresce sempre più a livello di massa (al di là delle distorsioni operate dai piccoli gruppi) il bisogno di capire quale sia la strada che conduce da una percezione puramente materiale dell’esistenza a un progetto di liberazione valido per tutti, o almeno per la parte più grande possibile.
Certamente esiste in questo quadro un problema di riaffermazione e di ridefinizione dell’identità della classe operaia come soggetto fondamentale della lotta politica e ideale del nostro Paese. [3]

 

Si tratta, è vero, di prese di coscienza ancora del tutto individuali o di gruppo, che esprimono il disagio di militanti che hanno il coraggio di vedere, anche se lo dicono tra i denti, o per semplici e velati accenni, l’esistenza e la vastità della crisi di un quadro teorico e politico, quello del gramscismo, tuttora valido per chi vuole inserire il partito e le masse inconsapevoli che ancora subiscono la suggestione in quanto è pur sempre una grande forza saldamente organizzata, dalla base elettorale, al parlamento e ai maggiori centri di potere periferico, anche se per ora in posizione subalterna, nelle strutture essenziali del sistema capitalistico e concrescere con il loro eventuale rafforzamento fino a divenirne parte integrante e dirigente. Dirigente cioè di un capitalismo in fase putrescente ma tuttavia pur sempre capitalismo per chi vede la situazione in prospettiva e sa che non si esce dalla crisi che sta rodendo le basi del sistema vigente, se non superando dialetticamente le forze politiche che direttamente o indirettamente lo governano. E questo è il compito storico affidato al proletariato rivoluzionario. Se il gramscismo è stato nella sua essenza un esperimento in corpore vili finito in una pratica obiettivamente socialdemocratica, il compromesso storico di berlingueriana memoria, portato alle sue estreme conseguenze, assicura la continuità del potere con i metodi di una burocrazia manageriana di cui gli attuali dirigenti picisti sono maestri impareggiabili.

 

Sintomi premonitori non mancano: usura del potere centrale e periferico soprattutto negli enti locali, comune, provincia e regione; crescita dell’indigenza generalizzata e della disoccupazione giovanile a cui fa riscontro lo stato fallimentare delle finanze locali lasciato in eredità dalle precedenti amministrazioni democristiane che hanno saputo prosciugare tempestivamente le casse a beneficio del loro partito quando non addirittura della propria personale baronia economico-politica col sostegno di validi e:sicuri nuclei clientelari.

 

Nessuno può garantire un crescendo nel consenso del corpo elettorale fino al raggiungimento del 50 + 1 e prossime consultazioni elettorali per il rinnovo delle Camere potranno dimostrare al partito della “rivoluzione intellettuale” che il consenso è per sua natura fragile, mobile, temporaneo e sempre aperto alle subitanee insoddisfazioni e alle insospettate mutazioni di umore e di orientamento.

 

Lo spostamento degli intellettuali? A questo problema Gramsci aveva promosso il meglio dei suoi studi e delle sue speranze politiche ma la storia doveva smentirlo. Nel cuore di una crisi economica senza uscita il ruolo degli intellettuali non è stato quello di forza illuminante di una nuova fase della storia del mondo ma quello di aggregarsi, in quanto intellettuali, al potere, portatori d’una cultura compenetrata di idealismo misticizzante e di rozzo empirismo manageriale che fa da cordone ombelicale tra i due maggiori partiti, la Democrazia Cristiana e il cosiddetto eurocomunismo del PCI, le due forze potenziali in funzione egemonica nell’ipotetico compromesso storico, valide forse per amministrare l’agonia del capitalismo, in nessun caso la fase montante dell’azione di classe del proletariato rivoluzionario il cui compito sarà quello di spazzarli via dalla scena politica inesorabilmente e definitivamente perché sia possibile la realizzazione di una società socialista.

 

In questo bailamme di intellettuali e di varie culture, intenti tutti ad estremizzare a destra e a sinistra dello schieramento politico internazionale del proletariato, pochi hanno preso la strada dell’approfondimento e della divulgazione della cultura di classe del proletariato con gli strumenti dati dalla dottrina marxista, la sola che riempia di se, del suo insegnamento tutto l’arco storico del capitalismo.

 

Ancora una volta gli intellettuali e i problemi della cultura sono allo sbando e per il loro destino è sempre valida l’indicazione marxista che prevede le classi medie, catapultate dalla decomposizione delle strutture capitaliste per l’urto violento delle contraddizioni interne, costrette ad essere attratte caoticamente dai due poli opposti del conflitto di classe, dalla conservazione da una parte e dalla rivoluzione dall’altra.

 

È questa realtà che ha posto in crisi il gramscismo; lo prova ulteriormente, in modo emblematico, la presunzione di Cerroni di non applicare Marx perché, è detto nel sottotitolo dell’articolo citato, a mo’ di conclusione, “l’esperienza delle rivoluzioni socialiste [è lecito chiedersi, quali?, n.d.a.] dimostra l’impossibilità di una interpretazione dottrinaria del pensiero dei classici”.

 

Alla presunzione di Cerroni fa seguito quella di Asor Rosa teso alla ricerca di una nuova identità e di una terza strada come se ciò fosse possibile senza il crollo del partito stesso. Che nessuno dell’apparato del partito sia disposto a morire per suicidio, è per lo meno ovvio.

 

E allora quale la vera strada? Quella che ci viene via via precisata, più che dalle parole, dette o scritte, dal presente cupo disfacimento del sistema dominante, da cui solo l’intervento d’una chirurgia rivoluzionaria potrà liberare l’umanità.

 

 

 

[1] Cerroni, l’Unità del 14 gennaio 1977.

 

[2] Gramsci, Materialismo Storico e la filosofia di B. Croce, Einaudi, Torino 1948.

 

[3] Asor Rosa, l’Unità del 19 aprile 1977.


 

 

La scomparsa di Togliatti segnerà la fine di un equilibrio?

 

 

 

Ci poniamo al di sopra della vicenda umana di Palmiro Togliatti che si è conclusa in questi giorni per afferrare il significato della sua milizia d’uomo di parte che non può né deve sottrarsi ad un esame e ad un giudizio, quali che siano le conclusioni a cui si potrà pervenire, esame e giudizio fatti da uomini di parte a uomini di parte. Senza ira, quindi, preoccupati di trar fuori dal mucchio di falsi ideologici, creati dalla propaganda e da certe fortune apparenti e contingenti, il profilo non sofisticato dell’uomo e il bilancio non alterato della sua opera, se vogliamo vedere chiaro nell’avvenire immediato del suo partito che fu anche il nostro partito.

 

Sfatata la leggenda di Togliatti e Gramsci fondatori del partito di Livorno, la loro partecipazione a questo avvenimento è ridotta ad un ruolo di secondo piano in confronto a quello preminente giocato da Bordiga e con lui dalla corrente di sinistra che già nel seno del partito socialista aveva apprestato in sede teorica una chiara linea di impostazione critica e una definita piattaforma programmatica, su cui si è poi costituito il primo partito rivoluzionario del proletariato italiano. E poiché non è concepibile dissociare la figura di Togliatti da quella di un qualsiasi altro che lo sovrasti e lo caratterizzi, che da solo non si sarebbe fatto strada che a condizione di utilizzare le maggiori stature prima di Gramsci e poi di Bordiga, bisogna dire che nella fase preparatoria del Convegno di Imola (1920) e nello stesso Congresso di Livorno (1921) Togliatti non ha fisionomia propria; è già un gramsciano in crisi ed un bordighista potenziale.

 

E si avvale di queste due prime pedine di lancio senza troppo impegnarsi in questa o in quella corrente e senza prendere di fronte questa o quella caratterizzazione ideologica, ma con una cauta azione condotta per vie interne, senza urti, con un linguaggio le cui argomentazioni appagano per certa logica formale e per la capacità di mettere in evidenza gli assunti accettabili e in sordina i controversi. E non penso che lo facesse per astuzia o per calcolo, ma, allora, alle sue prime armi obbediva forse ad una innata ed oscura inclinazione del suo carattere e ad una “forma mentis” che non l’avrebbero mai abbandonato anche quando avrà assicurato un posto eminente nella organizzazione politica nella quale allora era soltanto agli inizi.

 

In questa fase, che potremmo dire di crescita e di consolidamento del partito, Togliatti non è che abbia fatto sue le istanze della sinistra italiana, o che abbia osato combatterle mettendo avanti le posizioni originarie dell’“ordinovismo”. Sa non compromettersi; valuta l’opera di Gramsci come una esperienza parziale, intellettualistica e praticamente finita ed è suggestionato dalla forte ed operosa personalità di Bordiga pur sentendosi lontanissimo da certe sue formulazioni teoriche inconciliabili col mondo della sua cultura e con il suo stesso temperamento politico più portato al lavoro meno appariscente, dietro le quinte, e in ogni caso più concreto e, a lungo andare, più redditizio ai fini della sua carriera.

 

Con la defenestrazione della sinistra del partito e il materiale accantonamento di Bordiga, Togliatti, ora che l’investitura di Gramsci a capo del partito è un fatto compiuto per l’indiscussa designazione da parte delle nuove gerarchie politiche accampatesi al vertice dello Stato russo e della Internazionale Comunista, torna gramsciano con la coscienza di poter giocare a fianco di “Antonio” il ruolo di secondo nella direzione del partito, lui, che se era in grado di valutarne, nei suoi giusti termini, l’alto valore intellettuale, aveva anche piena coscienza dei limiti della sua personalità di politico e di capo che gli avrebbero consentito di poter tessere la tela della sua futura affermazione.

 

L’arte del destreggiarsi

 

La breve e dolorosa esperienza di Gramsci è servita da trampolino di lancio a più di un profittatore e a Togliatti principalmente.

 

Nell’arco di tempo che va dal 1924 al 1926 per incarico dell’esecutivo, partecipa assai spesso alle riunioni del gruppo parlamentare per intrattenerlo intorno ai problemi del momento, pertinenti soprattutto l’attività parlamentare e lo faceva con quel suo tono discreto e sfuggente, quasi predicatorio, senza mai affrontare i problemi che esponeva ma li sfiorava appena, diluendoli in una serie di argomentazioni valide per ogni dimostrazione, buone per ogni obiettivo, tanta era in lui la capacità di assimilare, smussare e rendere probatorie anche le posizioni più contraddittorie.

 

Erano insomma, i primi saggi di quell’arte del destreggiarsi che lo vedrà maestro nella tattica parlamentare e nel muoversi tra i partiti senza distinzione di credo o di interessi di classe. Se Togliatti avesse avuto la virtù del prestigiatore, state pur certi che nelle sue mani il rosso ed il nero, sarebbero diventati di punto in bianco bigi. E “bigia” infatti è stata la sua politica sia che le alterne vicende politiche salissero al rosso più acceso ed esaltante o precipitassero nel nero più cupo e deludente.

 

Nella fase preparatoria del Congresso di Livorno (1926) e nel pieno della lotta condotta, senza esclusione di colpi, contro la “sinistra” per imporre anche alla sezione italiana la nuova politica dell’Internazionale, passata tristemente alla storia con il nome di “bolscevizzazione”, se vi era qualcuno al centro del partito e nella redazione de l’Unità disposto ad assumersi l’ingrato e vergognoso compito di stendere quelle tali postille piene di veleno e strangolatorie degli articoli rimessi in redazione dai compagni della sinistra, che fino allora si erano mossi dietro l’iniziativa del “Comitato d’Intesa”, e di farlo con la coscienza di chi sa di poter impunemente tirare pugnalate alle spalle dei compagni messi nelle condizioni materiali di non potersi difendere, questo qualcuno era solo Togliatti e non Gramsci e non Tasca e non Scoccimarro a cui certo ripugnava tale basso servizio, anche se richiesto da Mosca.

 

Nel novembre del 1926 si conclude la nostra vicenda organizzativa di partito con la promulgazione delle leggi eccezionali fasciste e si apre quella della repressione cieca e incondizionata che colpisce tutti e noi comunisti in modo preminente e del tutto particolare, senza soverchie distinzioni tra i comunisti di vertice e quelli di apparato e di base col solo obiettivo di stroncare e dissolvere ogni possibilità organizzativa e di continuità della lotta.

 

Pochissimi riescono a salvarsi dalla tormenta della reazione e tra questi, naturalmente, Togliatti, l’impareggiabile tecnico della fuga.

 

Il periodo posteriore, che va dalla II guerra mondiale alla partecipazione al governo Badoglio è la storia del barcamenarsi di Togliatti tra le opposte tendenze, tra gli urti e le scissioni che si sono avute nelle vicende della politica russa dal Comintern al Cominform, in un equilibrio sempre instabile dei suoi orientamenti che gli ha consentito di rimanere non solo a galla ma di restare sulla cresta dell’onda dello stalinismo internazionale.

 

Davanti al dramma della rivoluzione

 

Nel lungo e drammatico duello tra Stalin e Trotsky, esprime simpatia e riserve ora per l’uno ora per l’altro tanto da non pregiudicarsi, ma sarà con Stalin e con la sua politica quando l’ago della bilancia si svolgerà a suo favore. Chi, per questo, potrà negargli sagacia e tempismo?! Ma la cosa grave è che questa scelta drammatica non aveva come termini contrapposti soltanto partito e opposizione, Stalin e Trotsky, ma rivoluzione e controrivoluzione e più precisamente la tendenza a durare nella politica della costruzione d’uno Stato socialista come pilastro a cui si sarebbe riannodata la ripresa della lotta rivoluzionaria del proletariato internazionale contro la tendenza opposta di far concrescere il socialismo da realizzarsi in un solo paese con la costruzione del capitalismo di Stato, tendenza che l’esito vittorioso della II guerra mondiale consoliderà e porrà come fondamentale caratteristica economica e politica a cui perverranno tutti i paesi del blocco sovietico e quelli di recente formazione nazionale sorti dal faticoso travaglio delle rivoluzioni afro-asiatiche sfuggiti, per ragioni di geografia e di influenza economico-finanziaria, al controllo della politica di dominio del capitale finanziario americano e della sua diplomazia.

 

Non si potrebbe capire la personalità politica di Togliatti se tolta da questa ambientazione storica che si era venuta a creare con la vittoria delle democrazie occidentali sul nazifascismo, nella quale sono protagonisti incontrastati la guerra imperialista, la fase montante del capitalismo di Stato e la democrazia parlamentare. Di fronte a questi problemi che domineranno il nostro tempo, un compagno che ha fatto le ossa nelle file di un partito rivoluzionario e delle lotte operaie o rimane ancorato a questa realtà di dottrina, di critica e continua la battaglia a fianco del proletariato anche se in posizione di inferiorità e in condizioni tutt’altro che favorevoli e con una prospettiva di arretramento obiettivo, oppure prende la strada del revisionismo e della corruzione ideologica che vuole che la guerra imperialista venga chiamata guerra delle libertà democratiche e del socialismo; che il capitalismo di Stato venga considerato come la fase iniziale e socialista dello Stato operaio e che la “via democratica e parlamentare al socialismo” consenta l’inserimento del proletariato attraverso i suoi partiti nel potere dello Stato capitalista.

 

Ed è questa seconda strada che imboccherà Togliatti, la strada congeniale al suo temperamento di possibilista, alla sua cultura che è quella delle classi medie e ai suoi interessi di uomo profondamente ancorato alla realtà nazionale.

 

Abbiamo scritto “cultura” e non a caso.

 

Cultura borghese e ideologia marxista

 

Che fosse di cultura e di buona cultura nel più ampio significato borghese, bisognerebbe essere faziosi per contestarlo. Diciamo, invece, che gli è mancata la curiosità, la capacità e volontà di assimilare e approfondire il marxismo come concezione rivoluzionaria della vita e del mondo, come critica del sistema capitalistico destinato ad essere distrutto dalle fondamenta. Gli è mancata cioè l’attitudine ad una vera e dura milizia rivoluzionaria, anche e soprattutto sotto il profilo della ideologia, per una costituzionale incapacità a concepirne il ruolo determinante e da ciò la ripulsa a connettere e far risalire il dato di fatto della politica quotidiana al dato della dottrina, attraverso una adeguata elaborazione teorica per ridurre tutto a termini di concretezza e tutto strumentalizzare con una empiria sconcertante, quale che fosse la situazione da affrontare.

 

Documentiamo a questo proposito: la sua presenza nel 1o governo Badoglio era per lui un fatto infinitamente più importante che la disputa tra monarchia e repubblica, e per il mantenimento di questa fetta di potere offertagli dalla borghesia in riconoscimento della sua adesione attiva anche se non attiva fu la sua partecipazione alla “guerra di liberazione”, non si perita di entrare in collusione col clero e con le forze retrive del capitalismo tradizionale obiettivamente fascista, votando l’art. 7, quello dei patti lateranensi, che doveva rinsaldare il secolare asservimento della coscienza del popolo italiano alle gerarchie della chiesa.

 

Come uomo di fiducia del più grande Stato europeo e come capo del partito più forte all’opposizione parlamentare, disponeva ormai di strumenti di propaganda e di “persuasione” tali da non consentire, non diciamo a chi era disposto a seguirlo ciecamente, ma all’uomo della strada di poter discernere quanto in tutto ciò ci fosse di opportunità tattica e quanto di banale opportunismo.

 

Ma a questo punto della nostra analisi — che nella personalità di Togliatti intende individuare il costume politico di questa nostra epoca, nella quale l’enorme potenza accentrata dello Stato imperialista ha piegato all’esercizio della sua dittatura masse, partiti, ideologie e coscienze — va tuttavia riconosciuto coerenza e conseguenzialità alla politica legata al nome di Togliatti e che riempie di sé il ventennio della democrazia parlamentare.

 

“Democrazia progressiva”, “via italiana al socialismo”, “via democratica e parlamentare”, “coesistenza pacifica”, “svolta a sinistra”, “mano tesa ai cattolici”, sono parole d’ordine che si inquadrano perfettamente in una visione politica d’insieme che mira ad immettere il proletariato, e in genere il mondo del lavoro, al centro del potere dello Stato come forza subordinata di sostegno in attesa che essa maturi e ponga se stessa in funzione egemone, in quanto produttrice essenziale della ricchezza. Dalla previsione scientifica e rivoluzionaria di Marx e Lenin, si è dunque precipitati nel più gretto progressismo quietistico e nazionale che Lenin bollò di infamia e per sempre, nei socialdemocratici della II Internazionale.

 

A conferma di quanto andiamo sostenendo, trascriviamo due affermazioni fatte in epoche diverse e lontane tra loro, che iniziano e concludono il pensiero di Togliatti e a cui il PCI ha uniformato e uniforma la sua condotta politica. La prima è tolta dal discorso tenuto al C.C. del PCI il 12 aprile 1954 che ha per titolo “Per un accordo fra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana” e fa da premessa:

 

… Se consideriamo la situazione in questo modo, già vediamo che ci si apre una vastissima possibilità di dar vita a qualche cosa che io non vorrei nemmeno chiamare fronte (perché è una parola scomunicata!) ma un movimento, uno schieramento di forze molto diverse le une dalle altre per la loro natura, per il loro carattere sociale e politico, e che sarebbe di fatto, un movimento per la conservazione della civiltà umana, per la conservazione della umanità stessa. Questo è il problema che sta oggi davanti a noi, e che sta al di sopra di tutti gli altri.

 

… Il compito che sta oggi davanti a tutti coloro i quali nutrono sentimenti di umanità, apprezzano la vita umana e la civiltà che gli uomini hanno creato, a tutti coloro che sanno che questa è la sola cosa che ha valore nel mondo e che deve ad ogni costo essere salvata, il compito è di riuscire a creare questo larghissimo schieramento di uomini per la conservazione della nostra civiltà, e dargli un peso decisivo nella situazione di ogni paese e nella situazione internazionale, a farlo diventare una forza irresistibile.

 

La seconda è inserita nel testamento politico lasciato in eredità agli epigoni del suo partito e fa da conclusione:

 

Nel mondo cattolico organizzato e nelle masse cattoliche vi è stato uno spostamento evidente a sinistra al tempo di papa Giovanni. Ora vi è al centro, un riflusso a destra. Permangono però, alla base, le condizioni e la spinta per uno spostamento a sinistra che noi dobbiamo comprendere a aiutare. A questo scopo non ci serve a niente la vecchia propaganda ateistica. Lo stesso problema della coscienza religiosa, del suo contenuto, delle sue radici tra le masse, e del modo di superarla, deve essere posto in modo diverso che nel passato, se vogliamo avere accesso alle masse cattoliche ed essere compresi da loro. Se no avviene che la nostra “mano tesa” ai cattolici, viene intesa come un puro espediente e quasi una ipocrisia.

 

… Per esempio, una più profonda riflessione sul tema della possibilità di una via pacifica di accesso al socialismo, ci porta al precisare che cosa noi intendiamo per democrazia in uno Stato borghese, come si possono allargare i confini della libertà e delle istruzioni democratiche e quali siano le forme più efficaci di partecipazione delle masse operaie e lavoratrici alla vita economica e politica. Sorge così la questione della possibilità di conquista di posizioni di potere, da parte delle classi lavoratrici, nell’ambito di uno Stato che non ha cambiato la sua natura di Stato borghese e quindi che sia possibile la lotta per una progressiva trasformazione, dall’interno, di questa natura. In paesi dove il movimento comunista sia diventato forte come da noi, questa è la questione di fondo che oggi sorge nella lotta politica.

 

Blocco storico

 

Come si vede il linguaggio è quello abituale, a contenuto illuministico e a forma che va oltre la semplicità per rasentare la sciatteria. Però un’idea vi si illumina, quella del “blocco storico” delle forze che egli ritiene idonee e utili ad essere convogliate in una azione comune verso la conquista pacifica e democratica del potere. Era, in verità, l’idea che Gramsci, originariamente, aveva intravisto come realizzabile su di un piano più alto, meno inficiato di compromesso e più aderente alla visione laica della tradizione risorgimentale, e che Togliatti fa sua traducendola in termini di interclassismo municipale, con tanto di benedizione papale.

 

Il bilancio di questa enorme gestione politica dell’ultimo ventennio non è certo attivo se si guarda ai risultati più che alla forza numerica del PCI dovuta più a cause obiettive che a capacità di capi. Togliatti ha retto sulle spalle la enorme responsabilità di un partito a cui non ha saputo, meglio, non ha voluto, assicurare né una svolta per il potere attraverso la rivoluzione, né condurlo per via democratica ed elettorale al governo della Repubblica per un condominio del potere borghese, pur avendo più d’ogni altra, tra le forze della guerra di liberazione e della resistenza, tutte, diciamo tutte, le carte in regola per accampare questo diritto.

 

Ad onta che il PCI sia stretto da anni nella morsa di questa fondamentale contraddizione che ne ha mortificato ogni seria iniziativa e paralizzato ogni capacità di slancio realizzatore, tuttavia il partito è rimasto, nelle sue grandi linee, unitario attorno a Togliatti proprio in virtù delle doti di astuto calcolatore e di forza frenante che tutti gli riconosciamo.

 

Ma ha anche lasciato in eredità un partito obiettivamente tutto schierato a destra nella ricerca di alternative di governo che nessuno è disposto a prendere sul serio a meno che non vengano rivoluzionati i rapporti esistenti nella geografia politica del mondo così come sono stati imposti dalle forze vittoriose della II guerra imperialista, dato che lo schieramento dei grandi partiti parlamentari è in definitiva quello imposto dai vertici di potere che dominano il mondo. Leggere l’oroscopo delle vicende che si determineranno nel prossimo futuro nel seno del PCI dopo la scomparsa e soprattutto per la scomparsa di Togliatti?

 

Per noi c’è un solo modo di esaminare questo problema, ed è quello di attenersi ai termini di classe.

 

Se non siamo disposti a prendere sul serio la ragione sentimentale e di immediato interesse politico che ha consigliato i pretendenti al “Capo” di mostrarsi più uniti di quanto in realtà non sono, non siamo neppure disposti ad avallare la tesi di coloro che vedono inevitabile e immediato il cozzo tra i “molli” e i “duri” per l’evidente ragione che ogni capo-corrente ha dimostrato di saper essere duro o molle e viceversa a seconda della situazione in cui ha dovuto operare. Non escono tutti dalla scuola di Togliatti?

 

Togliatti e la violenza

 

Questi allievi sanno, come noi, quale spietata durezza e inumana inesorabilità il Togliatti così buono, moderatore, abbia dimostrato nel consegnare alle purghe e alla deportazione in Russia e in Spagna, quei compagni che, usciti dall’inferno fascista, si erano illusi di trovare asilo e rispetto della propria coscienza politica nella patria del socialismo.

 

Questi suoi allievi sanno, come noi, che Togliatti aveva un modo assai curioso, ma soprattutto comodo, di considerare il ruolo della violenza; la riteneva valida e giusta se esercitata contro chi può mettere in pericolo la sua posizione e il suo avvenire di uomo politico; malvagia e non conforme alle leggi della storia quando è usata dal proletariato per spezzare lo Stato capitalista e l’esercizio della sua dittatura.

 

Questo sanno i suoi allievi e non c’è dubbio che se la storia si svolgesse ancora una volta sulla linea del loro interesse, essi sarebbero all’altezza di tanto insegnamento.

 

Il problema vero è ben altro ed è nella natura economico-sociale della formazione del PCI ridotto a vivere la politica dei “bollini”, dei festival della stampa e delle campagne elettorali per raccogliere voti, sempre più voti; oltre questa linea di attività amministrativa si apre il precipizio del nulla, del buio delle coscienze, di assenza d’ogni vera e reale prospettiva.

 

A diversa stratificazione economico-sociale del partito corrisponde una diversificazione di condizione di vita e di modo di pensare: gli operai industriali e i contadini poveri non possono vivere e pensare all’unisono con gli intellettuali, i piccoli borghesi e gli esponenti delle classi medie che nel partito fanno il buono e cattivo tempo. L’unità, tra queste forze divise da interessi divergenti e a volte addirittura di classe, è sempre stata la maggiore preoccupazione di Togliatti, che, per salvare questa unità, si è fatto iniziatore, dopo l’insurrezione del proletariato ungherese, di quella cauta politica di decentramento del potere centralizzato e di autonomia dei partiti riassunta nella teoria del policentrismo. Alla stessa preoccupazione dell’unità ad ogni costo è informata la tattica togliattiana adottata di recente di fronte al pericolo di scissura nel campo dei paesi “socialisti” in conseguenza all’acuirsi del dissidio Russia-Cina. Togliatti non era certo impressionato dalla drammaticità di questo scontro, ma dalle conseguenze che si sarebbero potute verificare nel seno del PCI, così profondamente lesionato da contrasti interni, per l’eventuale insorgere di una opposizione filo-cinese che la logica degli avvenimenti in prospettiva, avrebbe potuto condurre a lacerazioni profonde, irrimediabili per un partito, come il PCI, che basa la sua potenza sul numero e sui voti.

 

Questi gli epigoni

 

Sarebbe erroneo pensare che gli epigoni della statura di Longo, di Ingrao (il prediletto), di Paietta e di Amendola, che erano considerati sullo stesso piano come “delfini” potenziali del “Capo”, possano garantire per tutta una fase storica, la continuità e la riuscita di una politica unitaria così, come era stata concepita ed attuata da Togliatti.

 

Soltanto profondi sommovimenti di classe, e ve ne saranno su scala internazionale e già sono in fase di avanzata maturazione nel nostro paese, metteranno in moto le forze centrifughe del PCI quelle, soprattutto, dei proletari che non hanno dimenticato che l’emancipazione degli operai è opera degli operai stessi.

 

Gli altri, i borghesi, i borghesizzati, troveranno altrove la soluzione dei loro problemi nelle formazioni, inesauribili, della sinistra borghese. Non sarà più il PCI di ieri e di oggi, sarà forse l’auspicato “Partito del lavoro”, saranno altre istanze organizzative, ma il risultato sarà in ogni caso lo stesso.

 

Tutto sommato, noi siamo portati a preferire il muro di silenzio, carico di odio di classe, di cui la borghesia circondò la bara di Gramsci, alla teatralità irriverente, comiziaiola delle esequie di Togliatti; ciò è servito per ricordare a noi tutti e agli altri che non il proletariato, ma la borghesia italiana aveva perduto il suo figlio migliore.

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